Foto Ansa

l'operazione

La privatizzazione di Ferrovie dello stato ha una novità: si vende solo la rete

Giorgio Santilli

Stefano Donnarumma e il governo Meloni al lavoro su un piano che coinvolge investitori privati nella gestione delle infrastrutture. Il perimetro dell'operazione sarà più ristretto del previsto

Comincia a prendere una prima forma lo schema di privatizzazione delle ferrovie cui sta lavorando l’amministratore delegato di Fs, Stefano Donnarumma, per conto della premier Giorgia Meloni e del ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti. Con una sorpresa: i nuovi azionisti privati non entrerebbero nella società che svolge i servizi di trasporti, Trenitalia, o in un suo spin off con i treni dell’alta velocità, come si era ipotizzato in un primo momento, ma nel cuore del sistema ferroviario, la rete. Fs costituirebbe un veicolo societario da uno spin off di Rete ferroviaria italiana (RFI) cui resterebbe la parte di rete non privatizzata. Nello “stralcio” da affidare alla neonata società con una nuova concessione (non una subconcessione) ci sarebbe la parte più stabile e consolidata dell’infrastruttura ferroviaria che non ha bisogno di investimenti ingenti in nuove opere ma solo di completamenti e di manutenzioni ordinarie e straordinarie. Questo perimetro – che comunque dovrebbe essere definito nel dettaglio – consentirebbe di evitare un eccessivo zavorramento della nuova società con costi eccessivi di investimento da sostenere. E’ il “modello Terna”, quello cui pensa Donnarumma, con la tariffa di uso della rete infrastrutturale che sarebbe stabilita dall’Autorità di regolazione (in questo caso sarebbe l’Art, al posto di Arera) e pagata dalle società di trasporto che viaggiano sull’infrastruttura con i loro treni.

Donnarumma ha cominciato a parlarne con Palazzo Chigi, con il Mef, con il Mit in incontri ancora riservatissimi. Per garantire una redditività alla nuova società non è escluso che si sia costretti ad alzare le tariffe pagate dalle società di trasporto rispetto agli attuali canoni pagati a Rfi, con un possibile riverbero anche sul prezzo dei biglietti pagati dai viaggiatori alle società di trasporto. La nuova società della rete sarebbe partecipata da investitori istituzionali (Cdp, fondazioni bancarie, casse previdenziali e altri) ma resterebbe sotto il controllo di Fs o forse di altro soggetto pubblico (una nuova holding infrastrutturale). Il patrimonio sarebbe alimentato dai trasferimenti di Rfi: certamente le linee già completate dell’Alta velocità, in particolare la Torino-Milano-Roma e l’asse est  Milano-Venezia (che dovrebbero essere finite con il Pnrr a giugno 2026) e probabilmente le opere in via di completamento come la Napoli-Bari. Sarebbero escluse, invece, le opere che sono ancora tutte da realizzare come la Salerno-Reggio Calabria. Il vantaggio per il Tesoro sarebbe di alleggerire parzialmente il debito pubblico. Si tratta di uno schema di massima che ha ancora bisogno di molte verifiche e che non ha ancora avuto alcun via libera politico. Potrebbe entrare fra le riforme del Pnrr, ma è probabile che i tempi per assumere decisioni vincolanti siano più lunghi di quanto imporrebbe l’inserimento nel Piano europeo che, come è noto, non consente poi troppe correzioni di rotta e ripensamenti temporali. Tutto da considerare anche il complesso aspetto concorrenziale che sarà probabilmente il più interessante per Bruxelles. In linea di principio la valorizzazione della parte più ricca e attrattiva della rete dovrebbe accrescere la concorrenza fra i vettori, anche su scala europea. Bruxelles vedrebbe di certo positivamente questo percorso tanto più se portasse anche a una “separazione proprietaria” che sganciasse definitivamente la holding trasportistica di Fs, capeggiata da Trenitalia e dalle Frecce, dalla proprietà della rete. Una vecchia questione più volte posta da Bruxelles e più volte discussa dalla politica italiana, senza andare mai oltre la “separazione societaria”.