Cinema e denaro
Perché il tax credit può funzionare solo abbinato alla cultura del rischio
In Italia si è arrivati al punto in cui è possibile per i produttori fare film o serie quasi senza mettere un euro. Una grande abbuffata che conduce al declino dell’industria. Sarebbe ora di chiarire qual è l'obiettivo di questi sussidi
Così anche nel cinema è emerso un tradizionale modello italiano un superbonus a maglie larghe che facilita abusi e sprechi, nessun obiettivo e pianificazione da parte del regolatore, delega alla magistratura per il controllo di truffatori e furbetti. Il tax credit è un meccanismo di finanziamento automatico che fornisce crediti fiscali sulla base di spese effettuate nella produzione o distribuzione audiovisiva introdotto da Franceschini assieme a molti paesi europei. L’Italia l’ha realizzato con un sistema di maglie spesso larghe e generose che ha portato a una sostanziale sovraproduzione. L’effetto finanziario complessivo è stato un boom di utilizzo fuori controllo che ha superato le risorse previste nei fondi del ministero. L’anno scorso il governo ha annunciato una riforma, che poi è stata una limatura, e nel frattempo si sono bloccate le erogazioni e le produzioni.
Sia questo ministero sia quelli precedenti non hanno mai dichiarato quali erano gli obiettivi che volevano raggiungere, e i sistemi per misurare, questi ingenti sussidi. In Italia si è arrivati al punto in cui tra tax credit, contributi selettivi, finanziamenti delle Film Commission regionali, qualche fondo europeo e, per i più grandi, generose coproduzioni televisive era possibile per i produttori fare film o serie quasi senza mettere un euro. In un settore dove il successo è intrecciato con la gestione del rischio, quella configurazione porta alla grande abbuffata e al declino dell’industria. Intanto escono gustose tabelle con film che hanno preso finanziamenti ingenti e realizzato pochi o pochissimi incassi. Il successo di un film o di una serie è incerto, si sa, i risultati andrebbero valutati su un portafoglio e questa valutazione dovrebbe farla il ministero non la Guardia di Finanza. E le valutazioni sono legate agli obiettivi. Se l’obiettivo fosse quello di aumentare l’export o la quota di cinema nazionale in Italia, allora dovrei stringere le maglie verso i piccoli produttori per concentrare le risorse su campioni in grado di esportare.
Se invece voglio ottenere film che piacciano a quelli del settore non devo pensare a contributi automatici e vanno costruiti sistemi di monitoraggio basati sui premi vinti ai festival, magari stranieri, visto che un cugino assessore benevolo si trova facilmente. Se voglio trovare nuovi autori finanzio solo opere prime e seconde e devo accettare tassi di insuccesso più ampi. Però se ho professionisti di lungo corso che continuano a fare film senza pubblico il senso di sussidiarli è meno chiaro, a meno che l’obiettivo sia di sostenere l’occupazione di maestranze di qualità media, ma, come a bridge, sarebbe bello dichiararlo. Tra le modifiche del tax credit che hanno alimentato polemiche e ricorsi ci sono l’obbligo di spese promozionali e una distribuzione minima. Sono due tra i tradizionali punti di debolezza del cinema italiano, assieme allo scarso lavoro sulle sceneggiature, dovuto in parte all’approccio autoriale. La soglia proposta di fare almeno 50 proiezioni ha suscitato proteste ed è considerata irraggiungibile per i piccoli produttori. Ma con 50 biglietti medi a 8 euro significa 20 mila euro di ricavo complessivo di cui metà vanno all’esercente e del rimanente due terzi al produttore. Se un produttore spera di incassare meno di 7 mila euro dalle sale perché fa un film e perché la collettività dovrebbe finanziarglielo?