Lo scenario
La nuova Commissione Ue di fronte al dilemma sulla concorrenza
Cambio di passo rispetto alla linea dell'ex commissaria Margrethe Vestager. La nomina di Teresa Ribera potrebbe consentire lo sviluppo di "campioni europei" in grado di competere con i colossi americani
Caduti i veti incrociati, Raffaele Fitto e Teresa Ribera hanno passato le forche caudine. “La nomina di Fitto è un successo per tutti gli italiani”, ha commentato Giorgia Meloni. E quella della socialista Ribera lo è, per la proprietà transitiva, per tutta la Spagna. Ma sono in molti ad attendere con speranza il suo insediamento perché ha in mano il portafoglio oggi forse più importante che fonde la transizione ecologica e la competitività. Nella sua audizione e nel testo scritto presentato al Parlamento europeo emerge chiaramente un cambio di passo rispetto alla linea di Margrethe Vestager. La concorrenza resta un punto fermo per l’Unione, tuttavia non può diventare un ostacolo alla crescita di “campioni europei” in grado di competere con i colossi americani. L’eccesso di concentrazione, il monopolio o l’oligopolio fanno del male ai consumatori e alla società, ma il nanismo industriale non è un vantaggio per nessuno. Quindi meno veti a quelle fusioni e acquisizioni che fanno aumentare la taglia delle imprese europee, come invece è accaduto in passato. Il prezzo più basso possibile raggiunto spesso con pratiche super aggressive non è l’obiettivo ideale di una politica della concorrenza. E non è nemmeno l’optimum per il consumatore.
Un eccesso di concorrenza limita la competitività e indebolisce l’economia nel suo insieme, è scritto nel rapporto Draghi che Teresa Ribera accoglie senza esitazioni. I primi comparti strategici a essere interessati da questa svolta sono le banche e forse ancor più le telecomunicazioni. Il paese che potrebbe trarre particolare beneficio è l’Italia. In campo finanziario la prima prova è l’atteggiamento della Ue nella operazione Unicredit-Commerzbank. L’altra di estrema attualità riguarda la concorrenza distorsiva (e alla fine distruttiva) nella telefonia mobile. Il rapporto Draghi scrive che in Europa ci sono 34 reti e 351 operatori virtuali in confronto rispettivamente a tre più 50 negli Stati Uniti e 4 più 16 in Cina. In un mercato europeo ormai saturo, la logica spinge al consolidamento, anche se in pratica è più facile a dirsi che a farsi perché ogni operatore difende la propria quota anche se talvolta è piccola e marginale. Questa strenua difesa di posizioni acquisite porta a una guerra al ribasso dei prezzi che si rivela perniciosa. Uno studio condotto da tre professori della Luiss, Domenico Lombardi, Cesare Pozzi e Davide Quaglione, calcola che dal 2013 al 2023 i ricavi nella telefonia mobile sono caduti del 36,2 per cento; gli investimenti del 36,9 per cento.
“Siamo alla fermata del bus, però non riusciamo più a ripartire”, ha detto Pietro Labriola, amministratore delegato di Tim intervenendo al Forum nazionale delle telecomunicazioni. L’Italia è il paese europeo con i prezzi più bassi e il secondo al mondo, o si adeguano i prezzi o s’impoverisce non solo il settore, ma tutto il paese, è questa la sua conclusione. Parole che coincidono con quelle di Gianluca Corti che guida Wind 3. Eppure sia la Tim sia Wind 3 combattono una battaglia al ribasso ricorrendo a quelle che si chiamano offerte riservate. Non riservate a specifiche categorie di clienti (anziani, studenti, del sud o del nord, e così via), ma a quelli che usano altri operatori e scelgono di cambiare. L’obiettivo allora non è aumentare i ricavi, è difendere il proprio orto e possibilmente allargarlo.
“Si tratta di offerte riservate escludenti”, spiega il professor Lombardi al Foglio, e hanno un’implicazione di politica industriale. Gli effetti sono socialmente indesiderabili in primo luogo perché possono incidere negativamente sullo sviluppo delle dinamiche competitive nel mercato. Non è una questione privata, coinvolge infatti un settore strategico. La privatizzazione è stata scelta per aumentare l’efficienza, la trasparenza, l’innovazione e la generazione di valore per la collettività. I risultati a questo punto rimettono in discussione questi obiettivi. La ricetta dei professori non è certo tornare indietro, ma intervenire per garantire una competizione non distruttiva. “Il divieto integrale di commercializzare offerte riservate – conclude lo studio – sarebbe tra l’altro un segnale rilevante sul piano generale, che scongiurerebbe l’estensione di condotte simili anche ad altri mercati coinvolti in processi di liberalizzazione (primo fra tutti quello della telefonia e della connettività fissa)”. Anche l’Agcm, cioè l’antitrust, ha più volte segnalato la sua preoccupazione, ma governo e parlamento fanno orecchie da mercante. Dall’entrata in vigore della legge per la concorrenza nel 2022 il fenomeno si è persino esteso.
Spesso la pratica è lasciata a quelli che si chiamano second brand. Imperversa in tv una brillante pubblicità di Very Mobile (che fa capo a Wind) sulla storia d’amore tra una bella donna e una tartaruga per la quale lei abbandona il marito perché “costa meno e per sempre” (glielo dice anche in spagnolo maccheronico). Very lancia così un’offerta riservata a chi entro il 25 novembre molla Iliad, CoopVoce e altri operatori virtuali. Si dice à la guerre comme à la guerre e lo si fa. Tutto lecito, nessuno oggi lo può impedire se non una logica di mercato che non sia di breve, brevissimo periodo, ma che guardi un po’ più in avanti. Con questi chiari di luna chi se la sente di affrontare un nuovo salto tecnologico come il 6G?
E i clienti? Non è forse nel loro interesse che i prezzi scendano il più possibile? Una indagine della Swg condotta lo scorso ottobre mostra una situazione molto più sfumata. Non conta solo il prezzo, ma la qualità della rete e del servizio offerto, la trasparenza e la stabilità dei contratti. La girandola di offerte e controfferte finisce per creare un effetto boomerang. Ben il 70 per cento dei consumatori preferisce pagare di più per avere la certezza di non subire continue rimodulazioni delle tariffe. Le offerte riservate vengono concepite come un premio a chi lascia mentre si dovrebbe premiare chi resta, sostengono gli intervistati da Swg. Tre italiani su quattro vorrebbero una regolamentazione più rigida per garantire standard migliori e certi. Il discount telefonico rischia così di far male alle singole aziende e al sistema economico nel suo complesso senza nemmeno soddisfare i clienti. “Il declino della profittabilità rappresenta un pericolo per le imprese in Europa”, scrive il rapporto Draghi. Sembra proprio una trappola dalla quale uscire al più presto. Il nuovo approccio della Commissione europea potrebbe aiutare, ma i mercati nazionali restano dominanti e determinano una cacofonia assordante. L’equazione di ricavi, redditività, concorrenza interna e competitività internazionale, ha troppe incognite per essere risolta.