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L'editoriale del direttore

L'offerta di Unicredit a Banco Bpm è uno stress test sull'affidabilità di Meloni

Claudio Cerasa

L’operazione annunciata da Andrea Orcel complica la vita al Mef (vedi Mps), scatena i sovranismi (vedi Salvini) ma nasce da una scelta poco patriottica di Meloni (vedi Commerzbank). Il cortocircuito è reale e tosto. Ma la chiave per risolverlo c’è, ed è in Germania

Per una leader come Giorgia Meloni, che da presidente del Consiglio ha costruito buona parte della sua credibilità, della sua affidabilità e della sua presentabilità dimostrando, nelle occasioni che contano, di saper difendere l’interesse nazionale schierandosi saldamente dalla parte dell’Europa, dalla parte del mercato, dalla parte dell’America, il dossier aperto ieri da Unicredit, che ha lanciato un’offerta pubblica di scambio sulle azioni di Banco Bpm, rischia di far emergere il lato più pericoloso del melonismo. La storia è quella che probabilmente già conoscete.

Ieri mattina, una delle banche più importanti d’Italia, Unicredit, già impegnata in una complicata e ambiziosa partita europea finalizzata alla conquista della banca tedesca Commerzbank, ha scelto di lanciare un’offerta per comprare una delle banche più ambite del paese, Banco Bpm, con una formula che in gergo viene chiamata carta su carta: si offrono azioni di Unicredit agli azionisti di Banco Bpm valutando le azioni un pochino di più rispetto alle loro recenti valutazioni di mercato. Banco Bpm, però, non è una banca qualsiasi ma è la banca che due settimane fa è stata individuata dal governo per costruire un’operazione di mercato attorno a una banca partecipata dallo stato: Mps. Senso dell’operazione del governo: mettere sul mercato una quota pari al quindici per cento delle azioni possedute in Mps, venderle a un gruppo di capitalisti coraggiosi capeggiati proprio da Banco Bpm (al cui fianco si sono schierati anche Delfin, la società degli eredi della famiglia Del Vecchio guidata da Francesco Milleri, e Francesco Gaetano Caltagirone) e trasformare Banco Bpm nel partner perfetto per una fusione con Mps. L’azione di Unicredit su Banco Bpm, come è evidente, complica però i piani del governo. E se l’operazione voluta da Andrea Orcel, ad di Unicredit, su Banco Bpm, già tentata nel febbraio del 2022, dovesse andare in porto, il risultato per il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, sarebbe quello di dover trovare una soluzione alternativa per la banca senese, considerando il fatto che l’acquisizione di Mps è stata già bocciata una volta dall’amministratore delegato di Unicredit, quando il Mef gliela propose su un piatto d’argento ai tempi del governo Draghi (estate 2021).

I fatti dicono questo, la politica dice altro. E la giornata di ieri, per il governo Meloni, è stata, su questo tema, un susseguirsi di reazioni che sono a metà tra il surreale, il goffo e il pericoloso. I protagonisti assoluti della giornata sono stati il vicepremier Matteo Salvini e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che con toni diversi hanno mostrato il proprio disappunto per l’operazione. Così Salvini: “Unicredit ormai di italiano ha poco e niente: è una banca straniera, a me sta a cuore che realtà come Bpm e Mps che stanno collaborando, soggetti italiani che potrebbero creare il terzo polo italiano, non vengano messe in difficoltà”. Così Giorgetti: l’operazione è stata “comunicata ma non concordata col governo. Come è noto esiste la golden power quindi il governo farà le sue valutazioni e valuterà attentamente quando Unicredit invierà la sua proposta per le autorizzazioni del caso”. Come direbbe il saggio, se non ci fosse da piangere ci sarebbe da sorridere. Ci sarebbe da sorridere nel vedere un ministro, come Matteo Salvini, che considera straniera una banca che ha sede in Italia, che paga le tasse in Italia, che ha un capitale diffuso e i cui azionisti principali, insieme al fondo americano BlackRock che il governo da mesi cerca di spingere a investire di più in Italia, sono due fondazioni bancarie (Crt e Cariverona) e un colosso italiano (Delfin, gli eredi di Del Vecchio). E ci sarebbe da sorridere nel porsi una domanda non innocua: ma alla luce di ciò che dice Salvini, sono dunque tutti potenziali nemici dell’interesse nazionale le società partecipate da fondi americani che hanno un capitale diffuso? Dal canto suo, il ministro Giancarlo Giorgetti ieri ha fatto sapere con toni infastiditi di non essere stato coinvolto nell’operazione di Unicredit dagli azionisti della banca e di essere pronto a utilizzare per la prima volta nella storia dell’Italia l’arma di fine mondo della politica, il golden power, per fermare una società che al netto delle parole di Salvini è a tutti i titoli italiana. Tra le righe delle parole di Giorgetti, operazione non concordata, come a voler dire che con qualcun altro lo è stata, e soprattutto di Salvini, “Bankitalia c’è? Che fa? Bankitalia esiste, che dice, vigila?”, emerge poi un’altra linea di frattura importante che ci permette di arrivare a uno dei punti forse più interessanti di questo formidabile romanzo finanziario: la divaricazione sostanziale tra la linea di Bankitalia e quella del governo. Fonti finanziarie confermano al Foglio che l’operazione di Unicredit era stata preannunciata ai vertici della Banca centrale europea e la ragione per cui a Unicredit non è stato posto alcun veto rispetto all’operazione è diametralmente opposta a quella offerta dal Mef in queste ore per illustrare la sua preoccupazione

Bce e Bankitalia considerano l’operazione di Unicredit un’operazione di mercato (cosa che oggettivamente è, ed è la stessa Bce in fondo che da anni suggerisce agli istituti di credito di rafforzarsi unendo le forze quando possibile). Mentre il governo considera quello di Unicredit non solo uno sgarbo istituzionale ma un’operazione non tradizionalmente di mercato e violentemente anti sistema. La ragione non è solo politica ma anche tecnica, perché l’operazione di Unicredit su Banco Bpm fa entrare Bpm all’interno di una regola speciale, che scatta quando una società è sotto un’operazione pubblica di scambio, che si chiama “passivity rule” e che impedisce alle società quotate che si trovano al centro di un’operazione come quella lanciata da Unicredit su Banco Bpm di poter fare operazioni di mercato. Il che significa che da questo momento, fino al giugno 2025, data in cui terminerà l’operazione di Unicredit, Banco Bpm non potrà essere preda di nessuno (per esempio, Crédit Agricole) ma non potrà neppure rilanciare in operazioni già avviate (come l’Opa su Anima) e non potrà avviare operazioni ulteriori probabilmente già studiate (come la possibile fusione con Mps). Gli esperti sostengono che l’unico modo per il governo di intervenire senza utilizzare armi come il golden power che metterebbero a repentaglio la reputazione pro mercato della maggioranza è auspicare che il consiglio d’amministrazione di Banco Bpm giudichi l’offerta di Unicredit troppo bassa (cosa sulla quale concordano tutti i principali analisti, ma nulla vieta a Unicredit di rilanciare e migliorare l’offerta) e che così facendo lo stesso consiglio definisca ostile l’operazione di Unicredit – mossa che agli occhi della Bce potrebbe mettere l’operazione della banca guidata da Orcel sotto una cattiva luce. Il punto però non è solo economico, è anche politico, e nel duello violento tra Unicredit e il governo c’è molto altro in ballo che complica ulteriormente le cose. Complica tutto il fatto che venendo congelato il risiko bancario fino al giugno 2025 potrebbe esserci qualche ripercussione anche sulla partita delle partite della prossima primavera, che è il rinnovo di Generali, rinnovo su cui il governo italiano sembra intenzionato a sostenere da lontano il tentativo di Caltagirone e Milleri, entrambi brillantemente coinvolti dal Mef nella partita di Mps, di portare a un cambiamento ai vertici del Leone di Venezia, e che con un risiko congelato potrebbe imboccare altre direzioni. E complica tutto poi il vero elefante nella stanza che è il soggetto del paragone bellico fatto ieri da Giorgetti. “Citando Von Clausewitz il modo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti”. Il riferimento del ministro dell’Economia è ovviamente alla partita europea in cui è impegnata Unicredit, che a settembre, dopo aver acquisito dal governo tedesco una quota del 4,5 per cento di Commerzbank, ha fatto richiesta alla Bce di salire fino al 29,9 per cento della banca. Il governo italiano ha osservato da lontano la scorribanda di Unicredit, tifando per la banca italiana, ma il governo tedesco, in preda alle convulsioni, è intervenuto in modo brusco e ha usato verso Unicredit un approccio non troppo diverso da quello usato in queste ore dal governo italiano: fermi tutti, questa è una vergogna. Risultato: il governo tedesco ha sospeso a tempo indeterminato la vendita di un ulteriore 12 per cento del capitale di Commerzbank e i vertici dell’esecutivo Scholz hanno dichiarato che saranno al fianco di Commerzbank per proteggere la sua indipendenza. La mossa di Orcel, su Banco Bpm, nasce chiaramente anche da qui. Nasce dalla legittima volontà di Unicredit di avere un piano B in Italia per evitare sorprese in Germania. E nasce però da un problema che riguarda anche il governo italiano che rispetto all’intrusione di un altro governo, quello tedesco, in un’operazione come quella di Unicredit, ha mostrato un grave deficit di patriottismo, per così dire, non riuscendo a disincentivare la maggioranza tedesca dall’interferire in modo improprio con operazioni di mercato. La lettura è maliziosa ma non è azzardata: se il governo italiano mettesse da parte il suo orgoglio ferito in Italia, su Unicredit, e facesse valere la sua forza in Europa, mettendo in campo un whatever it takes su  Commerzbank, la mossa di Unicredit in Italia potrebbe prendere una piega diversa rispetto a quella intravista ieri? Chissà. In ballo, in questa partita, non c’è dunque solo il futuro del sistema bancario, e quando si parla di banche non sempre il governo riesce a dare il meglio di sé, diciamo, ma c’è il futuro della reputazione del governo, e la sua capacità di dimostrare che nelle occasioni che contano è in grado  di difendere l’interesse nazionale schierandosi dalla parte dell’Europa, dalla parte del mercato, dalla parte dell’America. Il pasticcio è dietro l’angolo, ma un exit strategy c’è. Citofonare in Germania, danke.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.