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No di Banco Bpm a Unicredit. Orientarsi in un risiko appena iniziato
Che cosa ha spinto Andrea Orcel ad aggiungere l’Offerta pubblica di scambio per Banco Bpm alla scalata di Commerzbank, due fronti entrambi difficili, costosi, disseminati di trappole politiche? Possibili risposte e scenari
Questo scambio, così com’è, non s’ha da fare. Il consiglio di amministrazione di Banco Bpm è stato esplicito: l’operazione è ostile e i 10 miliardi di euro proposti da Unicredit pari a 6,65 euro per azione sono troppo pochi. C’è una questione di soldi e anche una questione di forma in un capitalismo italiano dove si usa far prevalere il concordato al mercato. La via è lunga e accidentata, ma che cosa ha spinto Andrea Orcel ad aggiungere l’Offerta pubblica di scambio per Banco Bpm alla scalata di Commerzbank, due fronti entrambi difficili, costosi, disseminati di trappole politiche? Un finanziere che ha i capelli bianchi, ma buona memoria evoca l’anno del grande risiko, alla vigilia del crac finanziario mondiale. E ricorda quella che era diventata vox populi. Nel 2006 Romano Prodi da poco presidente del Consiglio, in missione a Madrid, capta grandi movimenti che riguardano il Banco Santander che in Italia aveva ereditato l’Antonveneta, ma voleva qualcosa di meglio, per esempio l’Istituto Sanpaolo su cui aveva messo gli occhi anche la Banca Intesa presieduta da Giovanni Bazoli ancora incerto se preferire la Capitalia guidata da Cesare Geronzi. Così Prodi telefona al suo amico Nanni e lo avverte: “Attento, mi dicono che ti soffiano il Banco”.
Bazoli para il colpo e in pieno Ferragosto annuncia le nozze con il Sanpaolo. Si mette in moto una reazione a catena: Unicredit assorbe Capitalia (ex Banca di Roma) e Mps si prende l’Antonveneta, non ha abbastanza capitale, quindi pasticcia con i contratti derivati. Adesso Orcel avrebbe capito (o saputo) che il Crédit Agricole era pronto a prendersi il Banco Bpm del quale è primo azionista, proprio mentre il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti benediceva il terzo polo con Mps-Bpm-Caltagirone-Delfin. Così è scattato, anticipando tutti.
Un’altra scuola di pensiero invita a non guardare l’albero perdendo di vista la foresta. L’albero è l’aggrovigliata pianta italica, la foresta è quella europea. Orcel sarebbe stato spinto, in realtà, dalle ultime mosse di Christine Lagarde. La Bce ha cominciato a ridurre i tassi di riferimento (ora al 3,40 per cento) e il mese prossimo forse taglierà un altro mezzo punto. La forchetta fra tassi attivi e passivi si riduce, occorre puntare sui servizi alla clientela e sulla gestione dei patrimoni. Bpm con Anima è in buona posizione, Unicredit deve recuperare l’errore del suo predecessore Mustier che ha abbandonato sia Pioneer sia un gioiellino come Fineco.
Oggi più che mai le banche devono affrontare la sfida della competitività. L’Europa e l’Italia sono molto indietro. La JP Morgan numero uno al mondo ha un valore di mercato di circa 600 miliardi di euro quasi dieci volte Unicredit. Nel Global 2000 di Forbes, Intesa è sul gradino numero 84, Unicredit al 129, Bpm al 712. Tra le prime dieci c’è solo la britannica Hsbc, nessuna dell’Eurolandia. E ora, con Donald Trump, fra Stati Uniti e Unione europea sono davvero guai. La Ue deve trovare una grande quantità di denaro per sostenere la sfida digitale e quella ambientale: il rapporto Draghi parla di circa 800 miliardi di euro all’anno. E sottolinea il nanismo del mercato finanziario continentale. I campioni europei non devono nascere solo nella Difesa o nell’Intelligenza artificiale, ma anche nella finanza, la grande vivandiera dello sviluppo. Le banche italiane possono stare in prima fila perché dopo la crisi del 2008-2010 si sono via via ingrandite e rafforzate, in mezzo a una furibonda polemica scatenata dalla Lega, dai Cinque stelle e dagli allora piccoli Fratelli d’Italia. Contro la Banca d’Italia guidata da Ignazio Visco, contro i governi di centrosinistra, contro i bankster. E’ stata messa in piedi una commissione parlamentare d’inchiesta. Gianluigi Paragone, Roberto Calderoli, Alberto Bagnai, Carla Ruocco, Tommaso Foti suonavano la grancassa. Per fortuna non li hanno ascoltati i banchieri i quali hanno percorso la loro strada, sotto l’ombrello della Bce.
Se l’Ops tra Unicredit e Banco Bpm andrà in porto, nascerà il terzo gruppo della zona euro. Sia pur ancora lontano da Hsbc (che vale 166 miliardi di euro) e dallo svizzero Ubs (106 miliardi), sarebbe comunque il numero uno dell’Eurolandia e con la Commerzbank la sua posizione si rafforzerebbe ancora. Orcel ha dieci miliardi di capitale libero, ne ha speso finora uno e mezzo per il 9 per cento di Commerzbank. Lo scambio con Bpm, del valore complessivo di 10 miliardi (finora) non dovrebbe comportare un esborso liquido, si fa carta contro carta. Il banchiere ha capito che deve rafforzarsi anche in Italia dove copre solo il 10 per cento del mercato, con Intesa che ha quasi il doppio ed è prevalente nel nord-est, soprattutto dopo le acquisizioni, nel 2017, della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, seguite dall’acquisto di Ubi nel 2020. Fino alla metà del prossimo anno non sapremo se l’operazione italiana andrà in porto; anche quella tedesca richiede tempo. Se l’obiettivo è scalare il vertice europeo, ingrandirsi sul mercato domestico aiuta, ma non può diventare un’alternativa. Le due azioni parallele devono convergere.
Nel nuovo assetto verrebbe molto ridimensionato il Crédit Agricole, ma che ruolo avrebbe la Delfin, azionista di Unicredit con il 2,7 per cento? E Caltagirone che possiede il 2 per cento di Banco Bpm? Delfin è alleata di Caltagirone non solo nello schema Giorgetti per il Montepaschi (3,5 per cento ciascuno), ma anche in Mediobanca e in Generali. Tante partite complesse con un’unica strategia? Si vedrà.
Abbiamo lasciato per ultima la più surreale delle polemiche: Unicredit non è una banca italiana, ha detto Salvini. E’ vero, tra i principali azionisti non ci sono italiani di rilievo (Delfin è guidata da italiani, è in mano agli eredi Del Vecchio, la holding è lussemburghese), il primo posto è di BlackRock, seguito dai maggiori investitori istituzionali, gli azionisti italiani hanno solo il 6 per cento. In Intesa BlackRock è il numero due dopo la Compagnia di San Paolo e prima della Fondazione Cariplo. Ma gli italiani insieme hanno poco più dell’11 per cento, il mercato l’88 per cento. Le due banche sono entrambe public company, è quel che ha consentito loro di crescere in Borsa: oggi Intesa Sanpaolo vale più del Santander; Unicredit è quotata tre volte Commerzbank. Quale singolo azionista italiano con il suo pacchettino di titoli o anche unito in accordi di sindacato, sarebbe arrivato a tanto?