Poco coraggio e fiscal drag. La riforma fiscale colpisce il ceto medio. Soluzioni possibili
I lavoratori dipendenti, pensionati e i lavoratori autonomi (quelli con fatturato superiore a 85.000 euro) sono sottoposti al sistema progressivo dell’Irpef. Aumentare gli stipendi per adeguarli all'inflazione senza cambiare questo li con
Negli anni dal 2020 al 2023 abbiamo sperimentato qualcosa che non si vedeva da tempo: alti tassi di inflazione, ovvero alte variazioni percentuali dei prezzi. Dal gennaio 2019 a ottobre 2024 la variazione dei prezzi in Italia è stata del 22%. L’adeguamento non è stato automatico nel caso degli stipendi dei lavoratori dipendenti, poiché questi dipendono dai rinnovi contrattuali che in Italia hanno cadenza triennale, che spesso con i ritardi diventa quadriennale. Pur in caso l’inflazione si fosse recuperata con il rinnovo del contratto, esiste per il lavoratore dipendente un ulteriore aggravio dovuto all’inflazione, causato dal sistema fiscale. I lavoratori dipendenti, pensionati e i lavoratori autonomi (quelli con fatturato superiore a 85.000 euro) sono sottoposti al sistema progressivo dell’Irpef. Ciò implica che la quota di reddito da pagare all’erario aumenta all’aumentare del reddito: un dipendente single che guadagna, al netto dei contributi, 40.000 euro, con il sistema di imposta previsto nella manovra di bilancio, paga il 24,3% del proprio reddito, chi guadagna 50.000 paga il 28% del proprio reddito. Quindi nel caso in cui via sia un aumento del reddito, cosiddetto nominale, ovvero necessario a recuperare il potere di acquisto che si aveva prima dell’inflazione, la quota da pagare all’erario aumenterebbe. Ad esempio, nel caso di un lavoratore dipendente single che guadagna 40mila euro e che in base al rinnovo del contratto ha avuto un aumento dello stipendio del 6% (non recuperando neanche tutta l’inflazione), pagherebbe un’imposta maggiore di quasi l’11% rispetto all’imposta che pagava prima del rinnovo del contratto. Questo problema non sussiste per chi è sottoposto a un sistema di imposta di tipo proporzionale come è il caso dei lavoratori autonomi, che sono sotto regime forfettario, a cui si applica il 15% per ogni livello del reddito. Nel caso di un professionista autonomo come, ad esempio, un avvocato con fatturato (al netto dei contributi) di 55.300 euro che quindi ha un reddito forfettario di 40mila euro, se il suo reddito aumenta del 6%, anche l’imposta che paga cresce del 6%. Nel caso precedente l’imposta cresceva quasi del 11%.
Il lavoratore dipendente per non essere gravato di questo ulteriore fardello dovrebbe essere tassato all’aliquota media precedente all’adeguamento dello stipendio. Questo però non avviene e quindi lo stato di fatto si appropria di gettito che non gli compete, aumentando indebitamente la pressione fiscale sui lavoratori sottoposti a tassazione progressiva (dipendenti e pensionati e una esigua quota di autonomi). Tale problema è stato attutito sui redditi bassi dall’intervento dello stato che, con la cosiddetta riforma fiscale, ha introdotto uno sgravio sui contributi sociali ed un abbassamento della pressione fiscale per i redditi da 15mila a 35mila euro. I lavoratori dipendenti non tutelati per quanto riguarda il fiscal drag sono coloro i quali non hanno beneficiato di alcuna agevolazione. Ovvero quelli che guadagnano più di 40mila euro. Per questi si chiede da più parti un ulteriore sgravio fiscale che dovrebbe vedere l’aliquota dello scaglione che va da 25mila a 50mila abbassarsi di 2 punti. E’ importante, tuttavia, sottolineare che riforme fiscali come quelle messe in piedi dal governo dovrebbero servire a ridurre la pressione fiscale e non a restituire gettito dovuto ad incremento indebito di pressione fiscale precedente. Il problema è però non di questo governo, ma generale. Lo stato approfitta dell’inflazione per aumentare di fatto la pressione fiscale senza che i cittadini se ne rendano conto. Questo può essere evitato in modo molto semplice, ma soprattutto strutturale. Coloro i quali sono sottoposti a tassazione progressiva dovrebbero essere tassati in base al loro reddito deflazionato e dopo, l’imposta dovrebbe essere aumentata del tasso di inflazione. In questo modo lo stato otterrebbe, come avviene nel caso della flat tax, un aumento di gettito pari al tasso di inflazione e non superiore ad esso. Ci si chiede cosa impedisca di adottare questo semplice metodo, se non la possibilità di incrementare il gettito senza molti clamori e proteste. Sarebbe molto importante quantificare quanta parte del recente aumento di gettito irpef dal 2019 al 2023 pari a circa 30 miliardi, è dovuto a fiscal drag. Questo avrebbe rilievo per due motivi. Il primo è che nelle previsioni di crescita di gettito è necessario tener conto che quel gettito in più non sarebbe ottenibile nel prossimo futuro, visto l’attuale tasso di inflazione e le previsioni per i prossimi anni. Il secondo motivo è che il gettito da fiscal drag deve essere interamente restituito ai contribuenti, a meno che non si voglia certificare un aumento della pressione fiscale sui lavoratori sottoposti all’Irpef. Il MEF potrebbe effettuare questo calcolo in modo puntuale impiegando qualche ora di tempo di uno dei suoi dipendenti.