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l'analisi

La Lega vuole riparlare al nord, ma non ha le parole per farlo

Dario Di Vico

Immigrazione, crescita, imprese, povertà. Il caso Romeo mostra una svolta possibile. Tutti i tabù del Carroccio

Si fa presto dire “torniamo al sindacalismo di territorio”. Ma poi bisogna farlo. Nella Lega dopo il congresso lombardo che ha scelto come guida Massimiliano Romeo è un po’ questa l’aria che tira nel partito. Autorevolmente avallata anche dalle dichiarazioni del governatore lombardo, Attilio Fontana e da richiami multipli ai tempi di Roberto Maroni e della sua linea-guida “Prima il Nord”. Ma, ripeto, non è facile. Innanzitutto perché presuppone un confronto ancor più “franco” con Matteo Salvini e una conseguente messa in discussione della sua linea di una Lega partito nazionale e per di più con articolazioni vannacciane. Il Carroccio resta un partito leninista e non ci sono procedure o scadenze politiche nelle quali le due ipotesi di posizionamento politico-territoriale potrebbero sfidarsi con annesse decisioni sulla leadership da confermare o cambiare. All’orizzonte c’è solo un’assemblea di carattere programmatico che per ora ha contorni molto sfumati.

 

Ma tornare al Nord è difficile anche per questioni di merito. Non siamo più ai tempi della Questione Settentrionale come passepartout e nemmeno della semplice e automatica identificazione antropologica con il popolo delle partite Iva. Certo c’è la scorciatoia di intendere il ritorno al territorio come una difesa a spada tratta dell’Autonomia differenziata ma anche in questo caso occorre tener presente che, solo per fare un esempio, il tema è vissuto con un certo feeling in Piemonte, con un altro in Lombardia e con vera passione solo in Veneto. Oggi volersi radicare di nuovo nei territori presuppone un abecedario diverso dal passato e aggiornato alle contraddizioni della società settentrionale. E su molte delle issue che oggi sono decisive per posizionarsi negli snodi di politica e economia settentrionale i leghisti hanno perso il contatto con la realtà e non hanno maturato una sufficiente elaborazione. Una dimostrazione la possiamo trovare nella figura di Giancarlo Giorgetti come responsabile del Mef. All’inizio si pensava che il ministro avrebbe frequentato le assemblee degli industriali del Nord avendo la possibilità di mietere convinti applausi da quelle platee e rafforzando così il legame della Lega con gli imprenditori. Non è andata così e l’immagine che ha prevalso è stata quella di un Giorgetti rigorista che ha tagliato l’Ace, voleva inserire uomini del Mef nei collegi sindacali e che per ultimo si è convinto che dovesse entrare in manovra almeno almeno l’Ires premiale per non rompere le relazioni con la Confindustria. Altro che sindacalismo di territorio!

 

Ma i ritardi della Lega al Nord non riguardano solo gli aspetti più legati alla pura comunicazione politica. Prendiamo il tema della povertà che, come è stato riconosciuto, cresce più nel Settentrione che nel Mezzogiorno. E’ il tema, certo, del maggior peso statistico della popolazione immigrata ma anche dei working poor, dei lavoratori che non riescono ad arrivare alla fine del mese. La Lega non ne ha mai fatto terreno di iniziativa politica, non si è mai intestata una battaglia sui salari e fatica così a confrontarsi con la nuova povertà sia metropolitana sia delle province. E quanto all’immigrazione, se da una parte Salvini insiste sulla linea oltranzista, tutti i parlamentari leghisti sanno che gli industriali dei loro collegi vogliono flussi regolari di manodopera extra-comunitaria per poter sostituire in fabbrica le generazioni che mancano e mancheranno. Per gli immigrati stanno anche maturando in Veneto e in Friuli iniziative di accoglienza con l’acquisto di case per i nuovi arrivati. Luca Zaia le ha benedette ma i salviniani fanno ancora del “terrorismo” (termine usato dagli industriali veneti) sull’immigrazione.

 

Altro tema poco frequentato anche dai leghisti “ritornisti” è quello della fuga dei talenti. Il flusso di giovani italiani che vanno a lavorare o a cercar fortuna oltrefrontiera è in continua crescita ed è puntualmente monitorato dalla Fondazione Nord Est, ma per la Lega è materia incognita. Insomma dove Nord vuol dire contraddizione rispetto ai bei tempi dello sviluppismo e della produzione industriale crescente il Carroccio si presenta afasico o comunque restio a sporcarsi le mani. E in fondo anche con la crisi di interi settori industriali (auto, abbigliamento-moda, elettrodomestici) succede qualcosa del genere. La politica industriale non è tema che faccia impazzire i salviniani ma anche i ritornisti non hanno molte frecce al loro arco. Con l’eccezione forse dell’assessore lombardo Guido Guidesi che ha puntato sul coordinamento delle regioni europee dell’automotive come soggetto negoziale per riformulare il Green Deal.

 

C’è poi il nodo di Milano. Salvini presidia il tema viste le sue origini metropolitane ma la Lega sembra puntare solo sulle questioni della sicurezza per scalzare il centro-sinistra mentre è afasica sulle profonde trasformazioni che interessano la città globale e che partono dall’immobiliare per investire il costo della vita e prime manifestazioni di overtourism. Anche nel caso ambrosiano i leghisti sembrano aver poco da dire, eppure oltre alle questioni che riguardano i residenti in città il posizionamento di Milano è decisivo per il futuro dei territori. Gli ottimisti pensavano che la città di Ambrogio potesse guidare la terziarizzazione dei distretti facendoli evolvere in chiave di ricerca e innovazione, e invece niente di tutto questo sta veramente avvenendo con il rischio di vanificare il vantaggio competitivo del made in Italy. Per i ritornisti quindi è sempre più difficile andare oltre una pura operazione-nostalgia, per sperare di essere efficaci dentro il partito e soprattutto di incrociare le inquietudini settentrionali di questa complicata stagione c’è tanto lavoro da fare. Il Nord di oggi è sempre meno quello di ieri.

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