Politica monetaria
Pronti al Trump vs Fed? I tassi di interesse potrebbero salire. Dazi a rischio
Dopo che il mercato azionario ha bruciato gran parte dei guadagni registrati dopo la vittoria alle urne, lo scenario economico non è dei migliori per il presidente, già pronto a scaricare le colpe su Powell. Ma non sarebbe il primo politico a comportarsi così
A meno di un mese dall’insediamento della nuova Amministrazione Trump, stanno già emergendo le contraddizioni del suo programma economico. Le ripercussioni rischiano di essere dolorose, non solo per gli Stati Uniti. Mercoledì scorso la Riserva federale americana ha ridotto i tassi d’interesse di 25 punti base, al 4,25 per cento, ma ha anche modificato le indicazioni sull’evoluzione futura della politica monetaria. Nei prossimi mesi i tassi scenderanno meno di quanto previsto in precedenza e potrebbero a un certo punto addirittura risalire. La banca centrale statunitense ritiene che l’inflazione non sia ancora del tutto domata e che potrebbe riprendere fiato, soprattutto in vista delle misure che la nuova Amministrazione si appresta a mettere in atto.
La combinazione di nuovi dazi sulle importazioni, controlli più rigidi all’immigrazione, drastici tagli fiscali e deregolamentazione del settore energetico e di quello finanziario potrebbe produrre un immediato effetto espansivo sulla domanda aggregata, mentre l’impatto sull’offerta rimane incerto. L’immigrazione è stata infatti uno dei principali motori della crescita americana degli ultimi anni, contribuendo per oltre mezzo punto di pil all’anno. Interromperla del tutto rischia di produrre contraccolpi negativi, soprattutto nel settore delle costruzioni e in quello agricolo. Quanto ai dazi, non è detto che l’aumento dei prezzi dei prodotti importati dalla Cina o dai paesi europei stimoli maggiore produzione sostitutiva all’interno degli Stati Uniti.
La reazione dei mercati finanziari non si è fatta attendere. Il dollaro si è ulteriormente apprezzato e i tassi d’interesse a lungo termine sono risaliti, non solo per le preoccupazioni riguardo all’inflazione ma anche per il debito pubblico in continuo aumento. Il mercato azionario ha bruciato gran parte dei guadagni registrati dopo l’elezione di Trump.
Si sta paventando uno scenario cosiddetto “boom and bust” per l’economia americana, con una crescita sostenuta nei prossimi mesi, alimentata dal forte afflusso di capitali dall’estero, seguita poi da una inversione di tendenza, quando i tassi d’interesse cominceranno a risalire, con conseguenze negative sul mercato azionario e sulla posizione finanziaria delle famiglie e imprese, e dunque sui consumi e sugli investimenti. Alcuni istituti di previsione scontano una crescente probabilità di recessione nel 2026. L’aspetto più difficile da prevedere in questo scenario è il momento in cui si invertirà il ciclo e comincerà il ridimensionamento delle aspettative, con effetti potenzialmente recessivi.
La natura anticipatrice dei mercati finanziari potrebbe accorciare la fase di espansione e mitigare la crescita nel breve periodo. Tanto più che le previsioni di inflazione, sottostanti all’evoluzione futura dei tassi d’interesse, saranno riviste periodicamente. Non si possono escludere ulteriori sorprese in occasione delle prossime riunioni della Riserva federale, a cominciare da quella di fine gennaio 2025, quando verranno pubblicate le prossime proiezioni sui tassi d’interesse.
In prospettiva, molto dipenderà dalla reazione di Trump al venir meno del suo scenario prediletto, fatto di tassi d’interesse bassi per aiutare le imprese, un dollaro debole per favorire le esportazioni e soprattutto un mercato azionario che continua a crescere. A quel punto il presidente potrebbe rimangiarsi alcune promesse elettorali. Potrebbe ad esempio rinunciare ai dazi sulle importazioni, se sarà ancora in tempo, oppure rimandare le agevolazioni fiscali, per contenere l’effetto inflazionistico. Ciò appare tuttavia poco probabile. E’ più verosimile che cerchi di scaricare sulla banca centrale le colpe di aver tenuto i tassi d’interesse troppo alti. Non sarebbe il primo esponente politico a comportarsi in questo modo. Si profila così il rischio di un conflitto istituzionale. Il mandato di Jerome Powell, presidente della Riserva federale, scade nel maggio 2026 e ha indicato che non intende dimettersi prima. Ma anche con un vertice diverso, è difficile pensare che una banca centrale indipendente come la Fed si pieghi alle richieste del presidente, soprattutto a fronte di una inflazione elevata. L’inflazione, che già è costata cara a Biden, e alla sua vice, rischia di indebolire anche Trump. Con l’avvicinarsi delle prossime elezioni di mid-term, nell’autunno 2026, Trump non può sottostimare la possibilità di perdere la maggioranza sia al Senato sia alla Camera, il che lo renderebbe un’anatra zoppa prima del previsto.