Foto Epa, via Ansa

L'occupazione torna a crescere, l'economia no. Problema

Alberto Brambilla e Claudio Negro

La produttività peggiora. E per l’industria, l’unica che può generare sviluppo e redditi, la legge di Bilancio prevede molto poco

A ottobre, come emerge dal più recente flash Istat, l’occupazione torna a crescere dopo la doccia fredda del mese di settembre con un + 47.000 unità, consentendo di stabilire il nuovo record di tutti i tempi con un tasso totale pari al 62,5 per cento della popolazione tra i 15 e i 64 anni. Non solo: come accade da tempo la maggioranza delle assunzioni sono a tempo indeterminato (85.000) mentre decresce ancora vistosamente lo stock dei dipendenti a termine (-60.000 rispetto al mese precedente) e il tasso di disoccupazione scende, anche in questo caso record, quasi a livello fisiologico al 5,8 per cento contraddicendo le tesi sulla precarizzazione del lavoro di Landini e soci.

 

Tuttavia, nonostante questo scenario occupazionale confortante, affiorano dati che evidenziano qualche preoccupazione. Il primo anche se meno sottolineato riguarda gli inattivi, cioè coloro che né lavorano né cercano attivamente lavoro e in questa classifica l’Italia occupa da sempre posizioni di testa. A ottobre erano 12.538.000, con un +3,1 per cento rispetto a settembre e un tasso pari al 33,6 per cento; su 38 milioni di italiani in età da lavoro e con 5,6 milioni di poveri assoluti (non arrivano alla seconda settimana del mese) e oltre 8,7 milioni di poveri relativi (arrivano a stento alla terza settimana), quelli che lavorano hanno raggiunto i 24 milioni: troppo pochi per generare sviluppo e pil. In Unione europea il tasso di inattività a fine 2023 era pari al 16,3 per cento; va ancora peggio se consideriamo il tasso di inattività dei giovani che non lavorano e non sono in formazione, definiti di solito con l’acronimo Neet dove, nella fascia 20-34 anni, l’Italia occupa il secondo posto in Europa con il 18 per cento, preceduta solo alla Romania (20,6) e lontanissimo dal 12,4 dell’area euro. Vero è che negli ultimi tre anni queste cifre sono migliorate (di 6 punti per l’Italia) ma nell’ambito di un miglioramento generale nell’Unione (circa 2 punti); e comunque, anche se parzialmente ridotte dal nuovo decreto Lavoro approvato in questi giorni, l’Italia è il paese con gli incentivi impliciti maggiori al lavoro sommerso o al non lavoro (leggasi l’enorme numero di bonus e agevolazioni correlate ai redditi e all’Isee: insomma, meno dichiari più soldi ti dà lo stato). 

 

Un dato significativo, che di solito viene trascurato, è quello sulle vacation (mancanza di personale nelle aziende): in Italia siamo sul 2 per cento, contro il 3 per cento dell’Ue, ma si tratta di un dato scivoloso e difficile da fotografare. Più comprensibile è il dato che illustra il mancato incontro tra domanda e offerta del lavoro: il cosiddetto mismatch. In Italia è tradizionalmente elevato: per il secondo semestre 2024 l’Osservatorio Excelsior (Camere di commercio) prevede un 47 per cento di mancati incontri tra domanda e offerta; il medesimo dato è 31 per cento per la Francia. Questi problemi sono comuni a tutta l’Europa (e non solo) ma l’Italia ha il primato di averli tutti insieme e essere al vertice negativo delle classifiche. 

 

Proviamo a illustrarli sinteticamente per trarne qualche conclusione. Dopo il crollo dovuto al Covid-19 e la successiva ripresa, il pil presenta dati in calo: 0,9 per cento nel 2023, 0,5 per cento per Istat (forse 0,7 per cento) quest’anno e 0,8 per cento nel 2025, manifattura permettendo e ipotizzando il medesimo flusso turistico del 2024, probabile anche per il Giubileo. L’industria negli ultimi 12 mesi ha perso l’1,7 per cento della produzione; commercio e turismo, nonostante il boom dell’estate, sono cresciuti solo dello 0,7 per cento. Rispetto al trimestre precedente l’export diminuisce dello 0,9 per cento; sul piano interno i consumi delle famiglie sono aumentati dello 0,8 per cento (verosimilmente come effetto dei numerosi Ccnl rinnovati durante l’anno) ma gli investimenti sono calati dello 0,3 per cento. I redditi delle famiglie da lavoro dipendente sono cresciuti dell’1,2 per cento ma per il 15 per cento della popolazione la pressione fiscale complessiva crescerà anche nel 2025 per via delle norme contenute nella legge di bilancio che agevola i redditi sotto i 35 mila euro lordi (l’85 per cento appunto della popolazione) e penalizza i soliti contributori cui gli emendamenti della sinistra volevano anche appioppare una patrimoniale. Resta quindi da interpretare come la crescita di occupati e con contratti stabili possa convivere con questi dati economici. 

 

A questo scopo è utile far rientrare nel ragionamento i dati sulle ore lavorate e metterle in relazione con il pil e con i redditi da lavoro. Il monte ore lavorato nell’industria è sceso del 6,2 per cento, (il pil, come visto - 1,7 per cento), mentre quello dei servizi è cresciuto del 2,5 per cento ma il pil solo dello 0,7 per cento.  In entrambi i casi l’input di lavoro cresce più dell’output del Valore Aggiunto. La produttività, ossia il problema più pesante e nefasto per la nostra economia e la sua competitività, peggiora nella media nazionale (la manifattura va meglio) e la legge di Bilancio per l’industria, l’unica che può generare sviluppo e redditi, prevede molto poco. Se riportiamo sul piano occupazionale i dati anzidetti vedremo facilmente come la modesta crescita del pil sia stata finanziata da bassi salari (+1,2 per cento in media) incrementati fino a un 4 per cento dei provvedimenti governativi di esenzioni fiscali e contributivi (uno spostamento di spesa pubblica a sostegno delle retribuzioni penalizzando altre destinazioni; insomma, potremmo dire che continuiamo a distribuire pesce (oltre 20 miliardi su 29) a debito (anche questa legge di Bilancio ne prevede tra i 9 e 10 miliardi) ma non diamo canne da pesca e quindi non cresce produttività e sviluppo. 

 

In sostanza assistiamo a una (modesta) crescita finanziata essenzialmente dai bassi costi di produzione, in primis il costo del lavoro. Un modello che presenta un vastissimo comparto di servizi mediamente poveri e un manifatturiero molto dipendente dall’automotive (e quindi dalla crisi dell’auto tedesca) con scarsa propensione alla ricerca e all’innovazione (una distrazione fatale in tempi di AI e transizione green). Un modello più vicino ai paesi in via di sviluppo che alle economie europee confermato anche dal calo degli investimenti fissi (-6 per cento) e delle esportazioni (-0,1 per cento). Speriamo di poter salvare qualcosa di Stellantis e della filiera ma anche se andrà bene sarà opportuno abbandonare i toni trionfali e rendersi conto che l’economia del paese, gravata da un debito pubblico che toccherà a breve i 3.000 miliardi, sta correndo pericoli piuttosto seri. 

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