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Straricchi e genuflessi

Non solo Musk. Anche Zuckerberg e Bezos si inginocchiano a Trump. Il nuovo corso del capitalismo americano

Stefano Cingolani

Una vera corte di uomini high tech attornia il presidente eletto. David Sacks, Marc Andreessen, Sriram Krishnan, Scott Kupor. C’è chi li chiama i nuovi robber baron, ma un secolo fa la divisione dei poteri era rispettata

C’è chi li chiama i nuovi robber baron, ricordando i baroni predatori che fecero grande l’America industriale oltre un secolo fa: JP Morgan, Cornelius “Commodore” Vanderbilt, Andrew Carnegie, Andrew Mellon, John Rockefeller, Henry Ford; finanza, navi, acciaio, ferrovie, petrolio, automobili. Un secolo dopo, i baroni high tech sono altrettanto spregiudicati e innovatori, hanno anch’essi l’idea che i governi siano come taxi dai quali si scende possibilmente senza pagare la corsa, ma facendosi pagare. La differenza è che allora alla Casa Bianca c’erano presidenti e a Capitol Hill parlamenti che facevano rispettare l’autonomia della politica e la divisione dei poteri. L’impero del petrolio venne spezzettato dallo Sherman Act, la legge antitrust; Teddy Roosevelt, quello del canale di Panama, della guerra di Cuba nella quale guidò una carica della sua cavalleria, i Rough Riders, della occupazione a lungo termine delle Filippine (insomma un tipino al quale Donald Trump amerebbe assomigliare se non fosse così flaccido), partì all’attacco dei monopoli; il suo successore William Taft mise alla corda i signori del tabacco; non parliamo poi dell’idealista Woodrow Wilson.

 

Non sono più i tempi in cui l’impero del petrolio venne spezzettato dallo Sherman Act, la legge antitrust, e Teddy Roosevelt attaccava i monopoli

 

Oggi invece il taxi della politica è affollato peggio di un minivan per turisti e chi lo ha preso non vuole proprio scendere. A cominciare dal numero uno dei nuovi robber baron, Elon Musk. Anche l’imprenditore visionario diventato l’uomo più ricco del mondo si è piegato allo spirito del tempo. “Le decisioni commerciali, una volta prese nelle sale riunioni o durante le assemblee degli azionisti, sono sempre più influenzate dalla politica – ha scritto Greg Ip sul Wall Street Journal, l’organo della fronda, posseduto da Rupert Murdoch – Gli Stati Uniti potrebbero avvicinarsi al capitalismo di stato, in cui il governo interviene regolarmente nelle attività commerciali per garantire che rispondano agli interessi nazionali”. Non solo, l’andazzo di questi ultimi tempi conduce dritti dritti al crony capitalism, il capitalismo clientelare. In Italia lo conosciamo bene. Per molti versi quello che sta accadendo a Musk e alla sua cricca ricorda la metamorfosi dei Condottieri, protagonisti dell’ultima fiammata del capitalismo italiano negli anni 80 che poi sono passati dalla concorrenza alla concessione governativa, dal mercato allo stato, dai maglioncini alle autostrade: Benetton, Berlusconi, De Benedetti.

Sembrava che fosse un modello tipico del Terzo Mondo o delle economie arretrate in cerca di scorciatoie per accelerare il loro cammino, invece è ormai nella culla del capitalismo. Secondo una chiave di lettura finora poco sfruttata, ciò avviene perché un modello di sviluppo è giunto al capolinea e un nuovo treno non è ancora partito. La parabola di Musk potrebbe confermarlo. Accusa Steve Bannon: “Elon vuole solo i soldi”. Tutti i suoi affari ormai dipendono dal governo: lo spazio, i viaggi dalla Terra alla Luna e chissà fino a Marte, le telecomunicazioni via satellite,  persino l’auto elettrica che ha lanciato con il coraggio di andare controcorrente, rischiando più volte la bancarotta. La Tesla avrebbe chiuso i battenti senza gli aiuti di stato, quello americano? Forse, certo sarebbe fallita senza il sostegno del regime di Pechino. Bisogna dire che Musk è un genietto anche in questo: ha baciato la pantofola dell’imperatore spacciandosi per il campione del libero mercato. La virata verso Trump, che aveva considerato un cretino di successo, più che una tardiva conversione ideologica è un calcolo cinico quanto razionale. 

 

Accusa Steve Bannon: “Elon vuole solo i soldi”. Tutti i suoi affari ormai dipendono dal governo. Tesla sarebbe fallita senza il sostegno di Pechino

                    


Chi decide se un’azienda statunitense o giapponese avrà il permesso di acquistare le acciaierie della United Steel? Washington, risponde Greg Ip. E chi fornisce a Intel 8,5 miliardi di dollari per produrre semiconduttori negli Stati Uniti? La risposta è la stessa. Ciò vale anche per Musk: il presidente potrebbe bloccarlo per il suo sulfureo legame con l’arcinemico cinese, ma anche fare eccezione e salvare la Tesla. Il capitalismo di stato secondo Ip sta diventando un capitalismo dove i clientes non ruotano più come sparvieri attorno a Capitol Hill per ottenere leggi a loro favore, ma fanno la fila come questuanti sotto le palme del campo da Golf dove si decide il futuro dell’America e forse del mondo. Nemmeno Joe Biden è stato un paladino del laissez-faire, tuttavia Trump è uno dei primi sostenitori del capitalismo di stato, sebbene in modo piuttosto personale. Ha costretto una società a mantenere aperta una fabbrica invece di trasferirla in Messico e ha utilizzato la politica commerciale per punire i concorrenti stranieri e favorire le aziende americane.

Su richiesta della Boeing il dipartimento del Commercio di Trump ha imposto tariffe esorbitanti alla società canadese Bombardier, costringendola a cedere il controllo di un nuovo aereo di linea regionale, la cui produzione è stata rapidamente spostata dal Canada all’Alabama. Sostenendo che le forze armate degli Stati Uniti avessero bisogno di una fonte domestica di acciaio, Trump ha imposto tariffe sulle importazioni di metallo provenienti da alleati militari. Nel 2020 ha tentato, senza successo, di forzare la vendita di TikTok a investitori americani. Ora ha deciso che i cinesi se lo possono tenere perché lui ha più follower lì che su Facebook, che aveva sospeso il suo account dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. “Gli investimenti a questo punto non sono orientati verso il massimo rendimento, ma piuttosto verso l’opportunità politica – incalza Ip sul Wall Street Journal La linea tra capitalismo di stato e capitalismo clientelare è sempre più confusa, poiché le aziende cercano di sconfiggere i propri concorrenti nei corridoi del potere piuttosto che sul mercato”.

 

Capitalismo di stato e capitalismo clientelare. “Le aziende cercano di sconfiggere i concorrenti nei corridoi del potere piuttosto che sul mercato”

                 


C’è astio, invidia, gelosia nelle accuse di Steve Bannon e c’è anche lo stato d’animo dei trumpiani d’antan che si sentono presi per i fondelli. Ma così fan tutti, non solo Musk. Mark Zuckerberg non era un Democrat, forse non proprio liberal, cioè di sinistra, ma poco ci mancava. Adesso anche lui è in ginocchio da Trump e decide di eliminare il fact checking da Meta, in sostanza la pulizia dalle balle condotta da soggetti indipendenti. Lo fa solo negli States, non in Europa, ma è là dove votano gli americani. Non parliamo di Jeff Bezos. Nel 2016 aveva fatto scrivere sotto la testata del Washington Post che “la democrazia muore nelle tenebre”, adesso il giornale dello scandalo Watergate che costò la testa a Richard Nixon non si schiera: né con Trump né contro Trump, né a destra né a sinistra e nemmeno al centro. Come diceva con cinica ironia quel volpone di Mario Missiroli quando doveva toccare questioni politicamente complesse: scrivete pezzi brevi e confusi. Anche il patron di Amazon vuole viaggiare nello spazio e dare calcioni negli stinchi all’odiato Musk, e anche lui ha bisogno del governo, ci vuole una concessione, come per la trasmissione via etere, o bucare il terreno per mettere cavi: non solo entriamo nel campo complesso dei beni comuni, ma ci stiamo spingendo ben oltre i confini del modello americano.

 

                         

                         

Una vera corte di uomini high tech, di genietti della Silicon Valley, attornia Donald Trump. E’ stato nominato “zar” dell’intelligenza artificiale e dell’universo criptovalute David Sacks, un venture capitalist. Marc Andreessen, uno dei fondatori di Netscape, testa d’uovo e testa a uovo, ha speso metà del suo tempo come “volontario” a Mar-a-Lago. Il suo partner Sriram Krishnan di origine indiana, sarà il consigliere presidenziale per l’intelligenza artificiale. L’ex collega Scott Kupor avrà in mano l’ufficio per la gestione del personale. Dipendenti di Uber e della fondazione Thiel hanno posizioni di punta nei dipartimenti statali e in quello per la salute. Il mentore (per molti il puparo) del vicepresidente JD Vance è Peter Thiel, tedesco, fondatore di Paypal insieme al sudafricano Musk e al polacco Luke Nosek, il quale è nel consiglio di amministrazione di SpaceX e avrà un ruolo importante nella ristrutturazione della difesa americana. E poi c’è il Doge, il dipartimento taglia burocrazia pubblica affidato a Musk. Saranno manovrati da The Donald o avranno loro in mano i fili della presidenza?

Con un patrimonio stimato di 415 miliardi di dollari e un’inarrestabile brama di battere sempre terre incognite, Musk si rende conto che il suo problema principale oggi si chiama Tesla e per risolverlo ha bisogno di Trump. La società è ancora una gallina dalle uova d’oro, vale in borsa mille duecento miliardi di dollari con un fatturato di appena 96 miliardi. Ha una quota di mercato del 4 per cento negli Usa e in Canada, meno del 3 in Europa e poco più del 2 in Cina. Per un confronto, la Ford ha rispettivamente il 13, il 6,5 e il 2 per cento. Il posto di numero uno nell’EV è insidiato dalla cinese BYD, ma l’intera produzione di vetture elettriche soffre una crisi di mercato e un attacco ideologico da destra. Quanto ancora potrà durare la bolla in Borsa? Come ogni buon imprenditore, Musk cerca di diversificare il suo portafoglio anche se non sarà facile, nessuna delle sue altre attività può dargli tanto quanto Tesla: l’ultima valutazione di SpaceX alla quale fanno capo i satelliti di Starlink e i propulsori è di circa 238 miliardi di dollari; Twitter l’ha comprato per 44 miliardi, ma sotto la sua gestione il valore si è volatilizzato; Neuralink, quella che impianta chip nel corpo umano, non si sa esattamente se vale 2 o 5 miliardi, ma le transazioni sono private; Solar City un paio di miliardi ed è confluita in Tesla energia, il resto è davvero difficile da stimare. Il suo punto debole resta l’intelligenza artificiale, è questa la nuova frontiera, ma per recuperare deve correre pancia a terra o avere un buon aiutino dai suoi nuovi amici. La Tesla, comunque, dipende ormai per il 50 per cento dalla benevolenza cinese.

Al termine di un decennio complicato, Musk arriva nell’Impero di Mezzo grazie al suo ex compagno di laboratorio alla Penn University Robin Ren, vincitore delle olimpiadi della fisica, nato a Shanghai, ma che di auto non si intendeva affatto. La crisi del 2008-2009, quella che mette a terra le Big Three americane e porta la Chrysler nelle braccia di Sergio Marchionne, vede la giovane Tesla in difficoltà. Il governo presta 18,4 miliardi di dollari alla General Motors e 465 milioni a Musk il quale non potrebbe sopravvivere se non fosse per l’aiuto della Daimler. Nasce così la Model S mentre la sua attenzione si è già spostata sullo spazio e, nonostante le opposizioni del vecchio establishment pubblico, trova il sostegno di Barack Obama, favorevole alla collaborazione con i privati. Una seconda tempesta s’abbatte sulla Tesla: la fabbrica di batterie del Nevada non riesce a tenere testa al piano di mezzo milione di vetture l’anno. Anche questa volta l’azienda viene sostenuta dall’esterno, non dal Tesoro, ma da John Elkann e dalla Magneti Marelli, l’azienda di batterie della Fiat.

Siamo nel 2018 e prende corpo l’operazione Shanghai: una fabbrica per produrre un milione di auto Model 3 nel 2024 e una gigafactory che comincerà a produrre nel 2025 diecimila Megapacks (batterie in grado di immagazzinare abbastanza energia da alimentare 3.600 case per un un’ora). Li Qiang, allora segretario del partito a Shanghai, si spende per il progetto (aiuti, incentivi, terreno praticamente gratis nella zona industriale dove si concentra il polo dell’auto elettrica) e lo sostiene una volta diventato primo ministro. Mezzo milione di dollari arriva dalle banche cinesi a tassi agevolati, mentre la municipalità applica una tassa del 15 per cento invece che del 25. E’ una svolta che consente di produrre in Cina circa la metà del fatturato a un costo molto inferiore a quello americano. La novità maggiore è che Musk diventa il primo e per ora unico occidentale a operare direttamente, senza un partner cinese. Nell’aprile scorso viene stipulato un accordo per l’auto a guida autonoma, con la possibilità di trasferire anche all’estero dati raccolti in Cina. Una partnership a tutto campo e Musk si spertica in elogi: “Le economie della Cina e degli Stati Uniti sono integrate strettamente – dice al premier Li – entrambi possono beneficiare dallo sviluppo l’uno dell’altro”. Chissà che cosa ne pensa Trump? 

Bannon attacca: i padroni di Musk sono a Pechino, visto che lui utilizza quello che viene chiamato il sistema del credito sociale un database che crea una sorta di lista nera, uno strumento di premi e punizioni a seconda del livello di fiducia nelle istituzioni, nel governo, nel sistema giudiziario, oltre che in quello economico finanziario. Nella Cina di Xi Jinping non ci sono più affari solo economici, tutto ormai è politico. Ma la stretta relazione con la politica emerge chiaramente anche su come funziona Starlink. Il banco di prova è la guerra in Ucraina. Racconta Walter Isaacson, il biografo di Musk: il sostegno entusiasta grazie a Starlink si spegne quando Elon ritiene che le comunicazioni attraverso i satelliti vengono utilizzate per attaccare la flotta russa a Sebastopoli e poi direttamente la Crimea. A quel punto ordina ai suoi ingegneri di sospendere la copertura. L’esercito ucraino era a 100 chilometri dal confine. Musk è convinto che il tentativo di riprendersi la Crimea avrebbe scatenato una guerra mondiale.

Scoppia un putiferio politico, Starlink viene ripristinato in parte, ma Musk non vuole più pagare. Si difende dall’accusa di parteggiare per Vladimir Putin, che egli conosce e nell’insieme apprezza, e comincia un braccio di ferro con il Pentagono dal quale Elon vuole 145 milioni di dollari per finanziare il servizio. Tra tira e molla finisce che Musk dà la licenza per Starlink e la rete militare Starshield, non  gratis sia chiaro, ma lasciando al governo di stabilire come e dove utilizzarle in Ucraina o altrove. Patriota a pagamento? Burattino o burattinaio? La Tesla da sola vale infinitamente più della Ford, della GM e della Chrysler messe insieme, ma i voti vengono dagli operai delle Big Three. Trump è stato eletto, Musk semmai è l’Eletto. Dal presidente dipende un bilancio federale di settemila miliardi di dollari, sei volte il valore in borsa di tutte le attività di Musk. Chi nella strana coppia è Walter Matthau e chi Jack Lemmon? E quanto durerà la cambiale di matrimonio? Forse tra pochi mesi avremo già la risposta ai due quiz.