La notizia della prossima chiusura del Fondaco dei Tedeschi a Venezia, diffusa un paio di mesi fa, ha creato un caso: 200 dipendenti a rischio licenziamento (foto Getty) 

Lusso & Flop

Attenzione a gioire per le perdite di paperoni come Arnault e Pinault: il rischio è che a pagare sia l'occupazione in Italia

Fabiana Giacomotti

La perdita del potere di acquisto della classe media. Le strette alternate ai consumi in Cina. L’evidenza che abbiamo coperto il pianeta di stracci. La caduta degli dèi del lusso è ancora lontana, ma conviene iniziare a valutare un piano di rilancio del settore su scala nazionale

Due ore prima che una scarica apocalittica di botti arrivasse a suggellare un anno parecchio complicato e a far morire d’infarto un gufo dalle parti di Follonica, notizia cliccatissima sui social del Corriere della Sera dove, da anni, le storie animali godono di una collocazione di rilievo, Bloomberg ha comunicato che i patrimoni di Bernard Arnault, di François Pinault e di Françoise Bettencourt Meyers, erede della grande controversia l’Oréal, tutti abbiamo visto su Netflix il documentario dove il maggiordomo piazzava il registratore sotto la tovaglietta del tè, sono calati di oltre 70 miliardi di dollari. La notizia è stata commentata con un certo entusiasmo dalle nostre parti, paese di revanscismo sociale dove se ce l’hai fatta non è mai per meriti tuoi ma, a seconda del genere, perché “l’hai data” o per “intrallazzi con i poteri forti”, ma questa volta sinceramente non si comprende la ragione di tutto questo gran fregarsi le mani: forse nessuno ha ancora unito i puntini, ma dovrebbe apparirci evidente che all’origine della contrazione del “gruzzolo dei paperoni d’Oltralpe” (scrivono meno sciattamente e con un linguaggio più contemporaneo i seguaci di Tony Effe sui social), vi siano due o tre o quasi tutti i fattori di incertezza che affliggono il settore da diciotto mesi a questa parte

 
In ordine casuale: i conflitti in corso, sebbene ci siano ormai pochi dubbi sul fatto che i nostri marchi del lusso abbiano trovato il modo di aggirare i divieti di interazioni con la Russia; la perdita del potere di acquisto della classe media in tutto il mondo; le strette alternate ai consumi in Cina; l’evidenza che abbiamo coperto il pianeta di stracci e che non sappiamo più come liberarcene, al punto che una settimana fa lo scoppio di un devastante incendio nel mercato dei vestiti usati di Accra, in Ghana, dove nel 2022 solo l’Italia ha scaricato 200 mila tonnellate di abiti smessi, è passato quasi sotto silenzio. I nostri guardaroba sono stipati all’inverosimile, in genere non vogliamo capi nuovi perché quelli che possediamo già sono pressoché identici ai modelli di dieci o venti o anche quaranta anni fa (spesso, anzi, sono fatti apposta per ricordarceli, in nome del cosiddetto “heritage”, la miglior trovata del marketing degli ultimi decenni, timoroso della propria ombra), però realizzati con maggiore cura e con materiali di maggiore pregio, da cui il grande boom del vintage. 

   
Il clamoroso successo della finta Birkin di Walmart, argomento di discussione di queste ore, dice però anche un’altra cosa, solo apparentemente contraddittoria, ed è che il mondo nato e cresciuto all’ombra del consumismo più sfrenato subisce ancora il fascino del brand e che un posticino nell’armadio per un oggetto sfizioso lo trova sempre, un po’ come per il dolcetto a fine pasto. Non è che non vogliamo più moda: non vogliamo più pagare cifre fuori mercato per abiti visti e rivisti di dubbia qualità intrinseca, dunque privi di un secondo mercato nel vintage, e talvolta realizzati in umidi sottoscala da operai sottopagati, che è il caso di Dior e del gruppo Armani sui quali vi è in corso un’indagine che, nonostante la disponibilità e l’impegno di Camera Nazionale della Moda e degli stessi brand nel voler fare “chiarezza”, consapevoli che la quantità delle merci sotto indagine sia irrisoria rispetto al volume di affari, ha colpito l’immaginario del grande pubblico. 

    

A volte non vogliamo pagare e basta. Il rosso “Ancora” di Gucci lo stiamo vedendo ovunque, ma le vendite del marchio calano del 26 per cento

   
Talvolta non si tratta nemmeno di etica. Non vogliamo pagare e basta, che mi pare sia il caso di Gucci con quella tinta speciale della quale il direttore creativo Sabato De Sarno va segnando il proprio corso, il rosso “Ancora”, una sfumatura brillante di rosso bordeaux, o burgundy in inglese: si tratta di un colore che noi del tardo Novecento non vedevamo nelle boutique dal 1983, circa, e le nostre mamme dai primi Settanta, nonostante sia una tinta che sta bene a tutti e che, come tutti i rossi, suscita allegria ed evoca ricchezza. Le vetrine dei marchi del fast fashion sono tappezzate di sfumature diverse di bordeaux da mesi, mezzo mondo indossa il colore scelto da De Sarno, però nel terzo trimestre del 2024 le vendite di Gucci sono state pari a 1,6 miliardi di euro, in calo del 26 per cento ai valori correnti. Dunque? Dunque, tutti questi fattori combinati rischiano di mettere per strada decine di migliaia di persone in tutta Italia. 

  
E qui torniamo ai “paperoni”. Togliamo pure le attività di l’Oréal in Italia, che appartengono comunque a un settore come la bellezza e il benessere, in grande crescita in questi anni e nelle previsioni anche in quelli a venire, e concentriamoci invece su quelle nella moda di prima fascia, appunto in forte calo di domanda. Questo è il business principale di Kering, la holding dei Pinault, nati industriali del legname e della distribuzione con Conforama, e che significa, fra gli altri, Gucci, Balenciaga, Saint Laurent, Bottega Veneta, Pomellato. E nonostante la grande diversificazione questo, cioè la moda, è anche il campo d’affari principale di Lvmh, la holding di Bernard Arnault, una carriera nata nell’immobiliare e sostenuta dalla metà degli anni Ottanta del Novecento dall’appoggio di Banque Lazard, che oggi si estende da Louis Vuitton a Dior, Fendi, Celine, Pucci, e via via ad altri settanta marchi fra champagne e liquori di pregio, ma anche all’alberghiero, alla distribuzione di cosmetici e profumi con Sephora e a centri commerciali come il Fondaco dei Tedeschi di Venezia dove, e si è già trattato di un segnale significativo, la notizia della prossima chiusura, diffusa un paio di mesi fa, ha creato un caso para-nazionale per via dei duecento dipendenti a rischio licenziamento. Potremo raccontarci fino allo sfinimento che i vertici della divisione DFS, la capogruppo che controlla l’antico magazzino e spaccio di merci affacciato sul Canal Grande (peraltro di proprietà dei Benetton), avrebbero potuto evitarne il collasso se avessero agito con maggiore acume strategico a livello locale, corteggiando cioè la ricca borghesia veneta, l’unica rimasta in Italia a vestirsi in total look Chanel, senza puntare ai soli turisti cinesi in visita di svago in Laguna, che dal Covid in poi si sono diradati e comunque spendono meno; il risultato però non cambia, e va ad aggiungersi ai molti dipendenti del settore dell’abbigliamento-moda, nei principali distretti italiani, per i quali dallo scorso anno sono stati aperti tavoli di crisi presso il ministero del Made in Italy e da poche settimane prorogata la cassa integrazione straordinaria fino al 31 gennaio di questo mese. 

   

I piccoli imprenditori che dieci anni fa si erano comprati “il” Ferrari non hanno saputo programmare il futuro. Il sistema dei distretti va rivisto

   
Poi, ancora, potremmo dire che tante di queste aziende terziste, negli anni, si siano arricchite producendo giacche e cappotti perché i “paperoni” potessero applicarvi i loro multipli, vestirne dei modelli fighissimi per una campagna pubblicitaria su scala mondiale e rivenderceli a venti volte il loro costo, ma il punto è che adesso i piccoli imprenditori che dieci anni fa si erano comprati “il” Ferrari non hanno saputo programmare il futuro e adesso sono in crisi sul serio, che il sistema dei distretti, nato più o meno spontaneamente nel corso di centinaia di anni, debba essere rivisto dai fondamentali, e che nell’attesa di un gran piano strategico per l’industria della moda da parte del governo Meloni almeno apparentabile a quello messo in campo per l’automotive, decine di migliaia di persone continuino ad aver bisogno di lavorare e che, nell’attesa di trasformarsi in grandi imprenditori di se stessi, sappiano solo cucire pantaloni e tagliare maniche. Nei suoi “métiers d’excellence”, insomma l’artigianato di alta specializzazione, all’inizio del 2024 Lvmh contava in Italia oltre 9 mila dipendenti e trentuno manifatture. Kering ne aveva 13.500 a fine 2023, un dato che mi hanno confermato l’altro giorno, generando e supportando oltre 94 mila posti di lavoro. Non ci sono dubbi che la crisi abbia rivelato l’incapacità gestionale della nuova leva dei direttori commerciali e marketing della moda, perlopiù cauti applicatori di regolette mandate a memoria in università e applicabili con efficacia giusto nel mass market da dove, in genere, provengono e hanno fatto le prime esperienze (le dinamiche che creano la desiderabilità di un abito non sono esattamente le stesse che ci fanno allungare una mano sullo scaffale degli yogurt al supermercato), e le reazioni di panico dell’ultimo anno (l’aumento grottesco dei prezzi, appunto) hanno rappresentato certamente un aspetto rilevante nel progressivo sgretolamento di un sistema che pareva ripartito a mille dopo la pausa pandemica e che invece, a emergenza davvero finita, si è scoperto superato dall’evoluzione dei desideri e delle logiche di acquisto, insomma fuorimoda. Ma gioire perché Arnault ha perso due posti nella classifica dei più ricchi del mondo, mentre Bettencourt ha visto il venticinque per cento del suo patrimonio polverizzato e Pinault addirittura il quaranta per cento mi pare una reazione simile a quella del tizio del proverbio che voleva fare un dispetto alla moglie. 

 
Ci piaccia o meno, la sorte delle due multinazionali del lusso è strettamente legata da decenni a quella dell’occupazione del settore in Italia, e dunque ci conviene iniziare a valutare davvero un piano di rilancio del settore su scala nazionale, che è quanto peraltro vanno facendo le stesse organizzazioni di categoria, vedi Confindustria Moda che, dopo la scissione di un anno fa fra tessile-abbigliamento e accessori, oggi studia pratiche di riavvicinamento, ben consapevole che il governo non abbia intenzione di parcellizzare ascolti e interventi economici e che anche a Bruxelles una voce univoca e potente sia politicamente più efficace. Queste mosse si rendono necessarie anche a fronte dei correttivi che le stesse due multinazionali del lusso vanno mettendo in campo per salvaguardare i propri risultati, il primo dei quali è l’intenzione, già dichiarata, di rivedere i propri partner commerciali sul territorio, cioè e ahinoi di aggiustarne al ribasso i compensi, e nel frattempo di continuare a investire in nuove opportunità o a disinvestire da quelle meno redditizie, nel più classico gioco di scambio di partecipazioni a fini di presentabilità dei bilanci: poche ore fa, uno dei veicoli finanziari sostenuti da Lvmh, L-Catterton, ha annunciato di aver acquisito la maggioranza del marchio giapponese di denim Kapital e, quasi contestualmente, di essere salito al 70 per cento del capitale di Etro, si dice in vista di una prossima cessione della maison a Mayhoola, holding di investimento della famiglia reale del Qatar, che ha già in portafoglio Balmain, Pal Zileri e Valentino, quest’ultimo a sua volta in via di cessione totale, entro il 2028, a Kering, che ne ha acquisito il 30 per cento un anno e mezzo fa. 

   
Poche ore fa, ha iniziato a circolare la notizia che Prada sarebbe interessato all’acquisto di Versace, che Capri Holdings vorrebbe liquidare nell’ambito della complessa fusione con Tapestry, della quale si è occupato l’antitrust Usa. Non sarebbe la prima volta che il dossier di Versace finisce sul tavolo del gruppo di Patrizio Bertelli e Miuccia Prada, che peraltro vanta un lunghissimo rapporto di amicizia con Donatella Versace, benché appaia a tutti evidente che per ridare slancio alla maison, proprio quest’ultima debba rassegnarsi a cedere le proprie quote e soprattutto la direzione creativa.

  

Ma il gioco di sponda finanziario mette in evidenza la resilienza di Lvmh e di Kering, che si dice goda di forte sostegno da parte del governo francese

    
Si tratta di un risiko continuo, incrociato, di un gioco di sponda finanziario che mette in evidenza la sostanziale resilienza dei due gruppi, in particolare di Lvmh che gode di una forte liquidità e di Kering che si dice goda di un forte sostegno da parte del governo francese, e al contrario della debolezza dell’architettura industriale italiana, troppo parcellizzata e incapace di una visione unitaria. In questa situazione, davvero critica, è ancora da notare come l’agenda della moda nei riguardi della sostenibilità vada prendendo fin troppo tempo e non siano stati ancora calcolati i costi di un approccio “business-as-usual”. Il fast fashion di Shein, uno dei marchi di maggior successo del settore negli ultimi anni, è diventato anche il più inquinante, secondo i dati pubblicati dalla stessa azienda lo scorso agosto, ma anche i brand del lusso occidentale stentano a gestire magazzini che si sono gonfiati a dismisura negli ultimi anni, a fronte dei molti invenduti. La caduta degli dèi del lusso è insomma e sperabilmente ancora lontana, ma senza che vengano prese delle vere misure, non è impossibile che a pagarne il prezzo sia l’Italia.