Perché l'Europa sta perdendo la guerra dei chip
Irraggiungibile l’obiettivo 20 per cento del mercato globale nel 2030. Uomini e investimenti: che cosa serve per affrontare la Cina
Se fossi un consigliere di Donald Trump, dopo le sue parole sulla Groenlandia gli mostrerei un recente siparietto del re di Danimarca. In quell’occasione, a fine ottobre, re Federico ha affermato: “Penso di non essere l’unico re in questa stanza. Ce n’è un altro e indossa una giacca in pelle”. Era Jensen Huang, co-fondatore e ceo di Nvidia, giunto a Copenhagen per inaugurare il supercomputer Nvidia Dgx SuperPod, che rappresenta per l’azienda leader dell’intelligenza artificiale uno dei progetti di “intelligenza artificiale sovrana”. Con essi, Nvidia cerca di diversificare i suoi clienti rispetto ai giganti digitali statunitensi e cinesi. Gli stessi investimenti europei sui supercomputer aumentano sempre il fatturato di Nvidia, che coi suoi sistemi controlla questa filiera. Chi cerca di sottrarsi a Nvidia, si affida ad altri attori degli Stati Uniti: Amd e Intel. Le istituzioni europee, perfino quando parlano delle loro “fabbriche dell’intelligenza artificiale”, usano i termini resi popolari da Jensen Huang: l’altro re della Danimarca. O meglio, il vero re. Forse il suo supercomputer monitorerà perfino il meteo della Groenlandia.
L’episodio è utile per analizzare lo stato dell’Europa nella guerra dei chip nel 2025. Dalla presentazione del Piano Made in China 2025, nel 2015, Pechino e Washington vivono da 10 anni in una crescente competizione per il dominio nella filiera dei chip, che rende possibile ogni anfratto della nostra vita digitale. Aziende un tempo sottovalutate, come la Tsmc fondata a Taiwan da Morris Chang nel 1987, sono entrate nei discorsi dei leader politici e degli amministratori delegati, assieme a strumenti di guerra economica come i controlli degli investimenti e delle esportazioni. Dopo la pandemia, abbiamo sentito un florilegio di iniziative per supportare la competitività nei semiconduttori e attrarre investimenti, come il Chips & Science Act degli Stati Uniti approvato nel 2022 e lo European Chips Act, anticipato da Ursula von der Leyen nel 2021 ed entrato in vigore nel 2023. Ed è ora di fare il tagliando alla strategia europea sui chip.
L’Ue si è data l’obiettivo di raddoppiare la propria quota globale del mercato al 2030, giungendo al 20 per cento. Dobbiamo chiederci se l’obiettivo sia corretto e se possa essere raggiunto coi mezzi attuali. La risposta alla prima domanda è “non proprio”. La risposta alla seconda è “no”.
Il peccato originale del programma europeo sui chip è che ha “sparato” una cifra, 43 miliardi di investimenti pubblici, per fare bella figura con gli Stati Uniti, ma i soldi pubblici sono sempre stati 3 miliardi e il resto viene dai bilanci nazionali
La prima risposta deriva dalla struttura complessa dell’industria, fatta di diversi segmenti interdipendenti: ciò che conta veramente è avere aziende leader nei segmenti, dalla produzione ai macchinari alla chimica. La leadership non è tanto e solo una quota complessiva. Certo, avere capacità produttiva è importante ma per questo servono risorse significative. Il peccato originale del programma europeo sui chip è che ha “sparato” una cifra, 43 miliardi di investimenti pubblici, per fare bella figura in confronto agli Stati Uniti, mentre i soldi pubblici veri a livello europeo sono sempre stati circa 3 miliardi e il resto viene dai bilanci nazionali. Di conseguenza, il programma europeo dipende dal coordinamento degli stati ma ogni stato ha agito per i suoi interessi, col proprio bilancio: per esempio, la Germania ha usato le sue capacità fiscali per spendere molto di più degli altri (in teoria); la Spagna ha stanziato risorse ingenti dal suo Pnrr, pur avendo una storia industriale nei chip molto limitata.
Inoltre, i principali progetti europei erano legati a Intel, azienda che vive una crisi profonda e che nel 2024 ha messo in pausa da un giorno all’altro tutti gli investimenti in Germania e Polonia, concentrandosi sull’America. Nel mentre, il mondo dei chip è stato già cambiato dal super-ciclo dell’intelligenza artificiale, di cui aziende europee come la tedesca Infineon e l’italofrancese Stm non sono per nulla protagoniste. Queste aziende, che hanno ricevuto sostegno pubblico, hanno come mercati soprattutto gli usi industriali e dell’automotive, e le loro difficoltà del 2024 indicano problemi più ampi per il futuro, che hanno un nome: Cina. I nuovi campioni cinesi dell’automotive, come Byd, sono anche giganti dell’elettronica: possiedono fabbriche di chip e obbediscono alle direttive del Partito comunista cinese di internalizzare il più possibile la produzione. Per la forza del mercato cinese e del loro coordinamento, le aziende cinesi sapranno presto fare tutto quello che sanno fare gli europei. Non solo: il rischio cinese coinvolge anche, in termini diversi, i gioielli europei, e in particolare Asml dei Paesi Bassi, che produce i macchinari più avanzati al mondo. Tra il 2023 e il 2024, la Cina è diventata il principale mercato per Asml. La riduzione delle esportazioni verso Pechino colpisce e colpirà anche le sue prospettive economiche.
I nuovi campioni cinesi dell’automotive, come Byd, sono anche giganti dell’elettronica: possiedono fabbriche di chip e obbediscono alle direttive del Partito comunista cinese di internalizzare il più possibile la produzione
In sintesi, l’Ue non arriverà certo al famigerato 20 per cento nel 2030 ed è bene pensare da subito a cambiare passo, in una Commissione dove molte figure alle prime armi avranno difficoltà con temi tecnici e politici così complessi. Per mettere ordine, proporrei di nominare “zar europeo dei chip” Peter Wennink, che dopo un decennio alla guida di Asml ora è presidente di Heineken. Heineken fattura oltre 35 miliardi, la birra è buona, ma la tecnologia è più importante. E nessuno a Bruxelles ne capisce un centesimo rispetto a Wennink.
Oltre ad attrarre investimenti, per cui occorrono il mantenimento dei mercati di riferimento e i soldi veri, sono poi essenziali altre azioni. Primo punto: tra i segmenti cruciali dell’industria dei chip c’è la chimica. Sono europei i gas industriali di Air Liquide o i prodotti di aziende come Basf; pertanto, è molto urgente liberare queste e altre aziende chimiche europee da un peso regolatorio insostenibile e ridicolo, per farle operare qui e non solo in Asia. Secondo punto: attori europei che operano in segmenti simili, come Stm e Infineon, e non sono abbastanza grandi per affrontare la Cina né per investire alla frontiera, possono iniziare un processo di consolidamento, magari coinvolgendo anche aziende giapponesi.