I trader nella Borsa di Wall Street a New York (AP Photo/Seth Wenig) 

Il risparmio europeo c'è, eccome. Serve una svolta sulla sua gestione

Lorenzo Bini Smaghi

Una risorsa dispersa per la quale serve una nuova visione. Export di capitali e frammentazione finanziaria frenano l'Europa mentre favoriscono i giganti americani o cinesi. Urgono riforme per competere. Priorità agli investimenti strategici

L’Europa è il più grande produttore di risparmio al mondo. Ma una parte rilevante – stimata a oltre 300 miliardi all’anno – viene esportata per finanziare investimenti in altre aree, a cominciare dagli Stati Uniti. La domanda che ci si pone spesso, anche nel nostro paese, è come “trattenere” il risparmio nei propri confini, e riuscire a utilizzarlo per favorire una maggiore crescita economica interna. 

  
In realtà la domanda è mal posta. In effetti, l’export netto di capitali dall’Europa – per l’Italia si tratta di circa 50 miliardi all’anno – non è che l’immagine riflessa dell’attivo delle partite correnti con il resto del mondo. Un paese che vende più beni e servizi di quanto ne acquista viene pagato con attività finanziarie estere, ossia accumulando una posizione creditrice. Se si volesse esportare meno risparmio, o acquistare meno attività estere, bisognerebbe esportare di meno o importare di più. Non sarebbe desiderabile, soprattutto per un’area che invecchia come l’Europa

   
Il problema non è dunque la quantità di risparmio che finisce all’estero, ma piuttosto come viene investito il risparmio che rimane in Europa, che è la componente più rilevante. La domanda da porsi è se tale risparmio viene usato in modo efficiente, per aiutare le imprese e le famiglie italiane ed europee e per far crescere maggiormente l’economia. 


Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare un aspetto fondamentale, che spesso viene ignorato in particolare dai responsabili di politica economica: nel settore finanziario, come nella maggior parte degli altri, la dimensione d’impresa conta e fa la differenza. Più grande è un’azienda e più risorse ha a disposizione per investire in tecnologia, per innovare, per sviluppare prodotti da offrire ai propri clienti e distribuire meglio i rischi. Le aziende più piccole, che hanno meno possibilità di fare scelte autonome, tenderanno a distribuire prodotti confezionati da altri. Questa evidenza si applica a tutti i segmenti del settore finanziario, dalle banche alle assicurazioni, dai fondi pensione ai gestori di risparmio, dal venture capital al private equity o ai fondi di debito privato.


A differenza degli Stati Uniti, in Europa le autorità decisionali e regolatorie, a livello nazionale e comunitario, sembrano spesso agire per scoraggiare la creazione di istituzioni finanziarie di dimensioni rilevanti, capaci di competere con quelle globali, basate negli Stati Uniti o in Cina. Ciò produce alcuni effetti deleteri.
Il primo è che il sistema finanziario europeo è frammentato, con istituzioni relativamente piccole rispetto a quelle statunitensi. Ad esempio, il principale fondo di gestione del risparmio europeo è al decimo posto nella classifica mondiale, preceduto da fondi americani o britannici. 

  
Il secondo effetto è che il settore regolamentato, come quello bancario, assicurativo o dei fondi gestione si sta restringendo, a favore di quello non regolamentato, in particolare dei fondi privati di debito e di capitale, che è dominato dai grandi attori americani di dimensioni enormi rispetto a quelli europei. 

  
Il terzo effetto è che, data l’incapacità di creare un mercato finanziario integrato, le aziende se ne vanno dalle borse dei vari paesi europei, che sono troppo piccole, per andare a quotarsi a Wall Street. Tra qualche anno la maggior parte dei listini europee non esisterà più o sarà irrilevante.

   
Da questa evoluzione, che è il frutto di decisioni politiche frammentate – o piuttosto dell’assenza di decisioni politiche in Europa – emerge una doppia tendenza. Dal lato del risparmio, una parte crescente viene gestito da istituzioni finanziarie non europee, che hanno la dimensione sufficiente per crescere e investire in nuovi prodotti. Alle istituzioni europee che non crescono rimane un ruolo di comprimario, di distribuzione al dettaglio di attività impacchettate da altri. Dal lato degli investimenti, in particolare quelli strategici, le decisioni sono sempre più nelle mani di grandi operatori non europei. Di fatto, è molto difficile oggi in Europa finanziare investimenti strategici senza la presenza di un grande istituzione americana. Un esempio su tutti è la vendita della rete da parte di Tim, il cui impegno finanziario, sia in termini di capitale che di credito, era inaccessibile per qualsiasi istituzione europea.

 
In sintesi, la sfida cui deve far fronte la politica italiana ed europea non è tanto quella di trattenere il risparmio ma di assicurarsi che quello disponibile venga gestito per finanziare le nostre priorità. Ciò richiede una visione diversa e scelte diverse da quelle fatte finora.
 

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