Che effetto ha la partecipazione dei lavoratori nelle imprese
Sbarca alla Camera la proposta di legge sostenuta dalla Cisl che mira a introdurre forme di compartecipazione. Le esperienze europee mostrano che ci sono degli effetti positivi, benché moderati. A condizione che le nuove forme di rappresentanza siano dotate di effettivo potere decisionale
È sbarcata alla Camera la proposta di legge sostenuta dalla Cisl che, tra le altre cose, mira a introdurre forme di compartecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese. L’esame in Commissione ha in parte modificato la proposta originaria, che però ora sembra avere ottime chance di diventare legge. Cosa aspettarsi quindi da questo cambiamento dell’assetto delle relazioni industriali nel nostro paese?
La ricerca scientifica in ambito economico degli ultimi anni ha fatto importanti passi avanti nell’analisi quantitativa degli effetti della compartecipazione dei lavoratori nei paesi europei che già adottano forme di cogestione, come per esempio Germania e Finlandia. In una recente rassegna, gli economisti Jager, Noy e Schoefer (del Mit e di Uc Berkeley) fanno il punto sul tema. In primo luogo, sembra non vi sia nessun effetto sistematico, o al massimo un effetto molto piccolo (e positivo), della rappresentanza a livello di consiglio di amministrazione o di sorveglianza sui salari e sulla condivisione dei profitti con i lavoratori. Similmente, gli studi esistenti suggeriscono che la compartecipazione non influisca sulle dimissioni. Tuttavia, potrebbe ridurre leggermente le separazioni involontarie: per esempio nel caso della Finlandia si stima che questo tipo di gestione delle relazioni industriali abbia ridotto del 14 per cento il numero di ingressi in disoccupazione.
L’altro lato della medaglia è che, almeno in Germania e Finlandia, la rappresentanza a livello di Cda non ha effetti negativi su produttività, ricavi e sopravvivenza delle imprese. Anzi, nel caso tedesco si registra un aumento del valore aggiunto per addetto tra il 2 e l’8 per cento. Inoltre, il 76 per cento dei direttori aziendali svedesi esprime opinioni positive sulla compartecipazione e solo il 5 per cento una visione negativa. Nei Paesi Bassi, circa l’80 per cento dei dirigenti ritiene che la rappresentanza sul luogo di lavoro abbia un impatto neutrale sull’efficienza e sull’innovazione, con il 5-10 per cento che stima un effetto positivo e il 10-15 per cento che stima un effetto negativo. Questa forma organizzativa ha grande appoggio anche tra i lavoratori in Finlandia: nelle imprese senza compartecipazione, il supporto per la sua adozione tra i dipendenti è oltre il 95 per cento. Come si spiegano questi effetti limitati, non dirompenti?
La prima e più intuitiva è che, sebbene garantita de jure, la compartecipazione de facto per come è implementata non garantisca vero potere decisionale ai rappresentanti dei lavoratori (e già qui emerge uno spunto per il caso italiano, alla luce delle modifiche operate dalla Commissione che hanno cancellato la quota minima di lavoratori nei consigli di sorveglianza delle imprese). La seconda spiegazione potrebbe essere nel fatto che, per come sono strutturate le relazioni industriali, anche in assenza di una formale compartecipazione, vi sia già una cultura di “compartecipazione informale” e che quindi una sua formalizzazione non faccia differenza. E sebbene in Italia sia assente la compartecipazione a livello di CdA, sono già invece presenti altre forme di codecisione a livello di luogo di lavoro, come le Rsu. Da ultimo il ruolo del sindacato: la determinazione dei salari e degli altri aspetti dei contratti di lavoro passa già attraverso forme di contrattazione con i rappresentati dei lavoratori, sebbene principalmente a livello collettivo e non di singola azienda. E tra l’altro proprio su questo tema non vi è alcuna evidenza che la compartecipazione riduca il tasso di iscrizione al sindacato, anzi vi sono evidenze di piccoli incrementi.
In sintesi, sulla base delle ricerche degli economisti, possiamo aspettarci che le nuove forme di compartecipazione dei lavoratori nelle imprese abbiano degli effetti positivi, ma assai moderati sia per i dipendenti (in termini di salario e altre caratteristiche qualitative del posto di lavoro) sia per la competitività delle imprese. Questo però a condizione che le nuove forme di rappresentanza dei lavoratori siano dotate di effettivo potere decisionale, e su questo il legislatore potrebbe rendere il testo della legge più efficace. Più in generale la compartecipazione potrebbe spostare l’asse delle relazioni industriali più lontano da un polo conflittuale e più vicino a un polo cooperativo, senza “distruggere” la contrattazione ma certo magari “spostandola” un po’ fuori da Roma e più vicini ai luoghi di lavoro.
Francesco Armillei, think-tank Tortuga