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Risiko bancario

La gestione della ricchezza privata fa gola

Mariarosaria Marchesano

Oggi gli istituti di credito puntano a costruire al loro interno l’intera catena del valore del risparmio. Più profitti e meno rischi. Per il piccolo risparmiatore e il grande patrimonio, ecco una mappa del business in Italia

Rende di più prestare soldi a famiglie e imprese oppure gestire la ricchezza privata degli italiani? In periodi di tassi d’interesse discendenti come questo, saranno più profittevoli i gruppi bancari che sono in grado di gestire il risparmio, al proprio interno o grazie ad alleanze. Si spiega così la piega che ha preso il risiko bancario in Europa con gli istituti di credito sempre più a caccia di società specializzate in questo settore. Si spiega così anche l’opa di Banco Bpm su Anima e in parte il tentativo di scalata di Mps a Mediobanca, che delle gestioni patrimoniali fa uno dei principali business. 

 

           

 

Il modello tradizionale della banca commerciale è in declino soprattutto se ancorato a un sistema tecnologico datato, così l’alleanza con intermediari finanziari in grado di generare flussi di cassa fa gola. Questa è anche la direzione indicata dall’Unione europea, che teme un indebolimento del sistema bancario in seguito all’espansione monetaria della Bce. Per questa ragione è stata rafforzata la norma (Danish Compromise) che agevola l’acquisizione di assicurazioni e asset manager. Quello a cui puntano oggi gli istituti di credito è costruire al loro interno l’intera catena del valore del risparmio: dalla sua raccolta (che già fanno) alla gestione (che oggi fanno solo in alcuni casi) fino a inglobare le fabbriche prodotto, cioè società in grado di realizzare le soluzioni di investimento (fondi e polizze). 

Secondo l’Esma, l’Italia è, a pari merito con la Francia, al secondo posto in Europa per numero di prodotti strutturati per il retail, cioè per i piccoli risparmiatori: nell’ultimo rapporto l’autorità europea ne ha censito un campione di circa 2.700 per ciascuno dei due paesi. Al primo posto c’è la Germania con 5.121 prodotti e a netta distanza vengono tutti gli altri stati. Nonostante questa grande vivacità, la ricchezza privata italiana ed europea finisce in gran parte nelle mani degli asset manager americani che sono molto competitivi sul piano dei costi oltre che per la varietà di prodotti. Così la ricchezza finanziaria del Vecchio Continente defluisce in gran parte verso gli Stati Uniti o altre aree (si calcola un deflusso annuo di circa 300 miliardi di euro).

Detto questo, l’Italia è un po’ un caso a parte in quanto a quantità di ricchezza privata e per come questa si muove tra le tasche dei cittadini, conti correnti, investimenti e costi per il suo impiego. Più grandi sono i patrimoni, più si guadagna, meno (in proporzione) si paga in commissioni. C’è un mondo che si può permettere gestori e consulenti indipendenti per scegliere come investire al meglio le proprie risorse e un mondo che ha come unica chance quella di rivolgersi agli sportelli bancari o postali, i quali, però, propongono esclusivamente i prodotti che hanno in casa. Poi, certo, ci sono promotori finanziari, broker e agenti vari a cui potersi rivolgere facendo, però, attenzione a non incappare in casi come quelli delle polizze Eurovita e Fwu. La grande disuguaglianza tra le opportunità di risparmio offerte alla fascia di popolazione medio alta e a quella medio bassa resta uno dei nodi da sciogliere, ad eccezion fatta dei titoli di stato che non a caso sono tornati di gran moda

Comunque, i soldi non mancano. L’ultima rilevazione della Banca d’Italia, di qualche giorno fa, dice che la ricchezza delle famiglie nel 2023 è pari 11.300 miliardi, in aumento del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente a livello nominale (senza contare, cioè, il potere di erosione dell’inflazione). Ebbene, di questa somma la ricchezza finanziaria (al netto cioè di immobili e altre proprietà) ammonta a 5.700 miliardi, di cui 4.115 miliardi investita e 1.577 miliardi liquida, cioè depositata sui conti correnti e, quindi, totalmente improduttiva. Ma dove si trova questa ricchezza? Poco meno della metà fa capo all’industria del Private banking (1.242 miliardi), vale a dire le divisioni specializzate degli istituti di credito più le cosiddette private bank, per esempio Mediolanum e Banca Profilo. Questi soggetti si occupano di patrimoni familiari a partire da 500 mila euro, non a caso si tratta di un’industria in salute ma che destina solo il 15 per cento, pari a 126 miliardi di euro, all’economia italiana. Tant’è che il presidente dell’associazione del private banking, Andrea Ragaini, che ha partecipato ad alcune consultazioni aperte al Mimit e al Mef, ha avanzato la proposta di una tassazione graduale, come in Francia in Inghilterra, che si riduce via via se i capitali vengono investiti e mantenuti a sostegno delle imprese. La restante parte della ricchezza finanziaria privata si trova in capo a banche retail e a Poste italiane. 

Diverso è il discorso degli asset manager che costruiscono e gestiscono i fondi d’investimento, un’industria che in Italia vale 2.500 miliardi. Insomma, c’è chi per mestiere raccoglie risparmio e chi possiede i veicoli di investimento, poi ci sono gli intrecci, intermediari finanziari che fanno entrambe le cose (per esempio, Intesa Sanpaolo con Eurizon e in parte anche Mps grazie alla sua partnership con la francese Axa) e questa è la tendenza destinata a prevalere per il futuro.  

Un mondo a parte è quello dei family office, le boutique di consulenza delle famiglie capitaliste. Si tratta di strutture complesse e anche un po’ misteriose, ma una ricerca di Pwc li ha censiti tracciandone le attività: sono 54 i principali family office, con sede legale in Italia e nella Svizzera italiana: 37 sono strutture singole, cioè dedicate a un’unica dinastia, evidentemente molto ricca, e 17 sono multi family office, al servizio di più famiglie. La maggior parte gestisce capitali tra 50 a 500 milioni, ma un buon terzo supera il miliardo. Un dato interessante è che il 44 per cento dei family office singoli intervistati da Pwc dichiara di avere in gestione “liquid event”, vale a dire denaro derivante dalla vendita di aziende di famiglia o anche per passaggi generazionali e divisioni ereditarie.

Incrociando questi dati con un’altra ricerca, realizzata dal Politecnico di Milano insieme con il gruppo Pictet, sui flussi di capitale liberati dalla cessione di imprese negli ultimi 10 anni, che ammontano a circa 300 miliardi, si comprende anche perché siano proliferati i family office ma soprattutto i Club Deal che ne rappresentano l’ultima evoluzione. Cioè gli eredi di dinastie imprenditoriali creano dei gruppi per mettere a frutto la ricchezza acquisita investendo in altre società promettenti, spesso start up oppure realtà innovative. E’ un universo variegato, molto liquido, che fa un po’ storia a sé. Ma anche quest’esempio è utile per comprendere perché la gestione della ricchezza è un business così ambito dalle banche: le commissioni pagate dai clienti italiani sono tra le più alte d’Europa come hanno dimostrato vari studi e per di più i clienti sempre sono gli unici ad assumersi un rischio.