Il colloquio
Cosa non torna nella guerra commerciale tra America e Europa
Trump usi i dazi con fini politici e per negoziare altre partite, come si è visto con Messico e Canada. Ma se l'Ue risponde rincarando a sua volta le tariffe sui beni americani, “nel medio lungo periodo ci sarà un aumento dell’inflazione”. Intervista ad Andrea Ferrero, professore di economia all’Università di Oxford
Il tira e molla sui dazi con il Messico e il Canada del presidente americano Donald Trump pone un dilemma all’Unione europea: provare a negoziare prima o agire di conseguenza? E quali potrebbero essere gli effetti sull’economia e sulle future mosse della Bce? Secondo Andrea Ferrero, professore di economia all’Università di Oxford, per orientarsi sulla politica commerciale di Trump bisogna distinguere dall’uso che ne fa nella politica estera da quello di propaganda interna, che è un obiettivo meno esplicito. Obiettivo di che tipo? “Abbassare le tasse ottenendo le risorse necessarie dalla riduzione del deficit commerciale”, risponde Ferrero, secondo il quale la nuova amministrazione ha ben presente il rischio che correrebbe alleggerendo il carico fiscale con un amento del debito pubblico. “Così vuole preparare il terreno per la sua prima manovra economica che sarà si espansiva ma non punterà a sconquassare i conti pubblici con il rischio di provocare turbolenze sui mercati finanziari ai quali, comunque, è molto sensibile”. Insomma, quando Trump dice di volere i dazi per far crescere l’economia statunitense e proteggere i posti di lavoro tiene sotto traccia quello che è il vero scopo e cioè consolidare il suo rapporto con la middle class americana.
Ma che c’entra l’Europa con tutto questo? “Onestamente, non capisco bene cosa Trump voglia dall’Ue, forse meno regolamentazione per permettere alle grandi società americane di operare senza troppi vincoli burocratici”. In effetti, è proprio a questo che si riferisce la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, quando dice che Bruxelles è pronta a colpire l’export dei servizi tecnologici e bancari americani: in questo settore, infatti, sono gli Stati Uniti ad avere un surplus commerciale nei confronti dell’Europa e non il contrario come avviene per i prodotti industriali. Intanto, una cosa sta diventando chiara: a seconda del tipo di strategia che sarà adottata dall’Unione europea, le conseguenze saranno diverse, non è cosi? “L’Europa si trova in una posizione difficile – prosegue Ferrero – se gli Stati Uniti applicheranno dazi alle importazioni di merci europee, ci sarà un calo delle esportazioni che farà molto male alle imprese. A quel punto l’effetto complessivo sull’economia dell’area potrebbe essere di tipo recessivo. Ma c’è anche un aspetto valutario da considerare: aumentando la forza del dollaro sull’euro, l’impatto dei rincari sarebbe in parte controbilanciato”. In questo scenario, secondo l’economista, la Bce sarebbe incentivata a proseguire con il percorso di riduzione dei tassi, anzi lo accelererebbe per evitare il deterioramento economico.
“Nel caso, invece, in cui l’Unione europea rispondesse a sua volta rincarando le tariffe su beni e servizi importati dagli Stati Uniti, è prevedibile che nel medio lungo periodo ci sarà un aumento dell’inflazione e a quel punto la Banca centrale europea sarebbe portata a fermare la discesa dei tassi se non ad aumentare il costo del denaro, che poi è un po’ quello che si prepara a fare la Federal Reserve”. Dunque, tra subire i dazi e ingaggiare una guerra commerciale con l’America converrebbe più subire? “Non tocca a me entrare in questo tipo di valutazioni, ma da quello che si osserva mi pare chiaro che Trump usi i dazi con fini politici e questo andrebbe tenuto in considerazione. Nelle relazioni con alcuni paesi, minacciare di alzare barriere commerciali serve per negoziare altre partite, come si è visto con Messico e Canada. Nei rapporti interni, invece, si fa intendere che ci sarà una torta più grande da dividere. Mi pare plausibile che la ragione per cui i capi dell’industria americana non si oppongono a quest’ondata di protezionismo, che in teoria è per loro controproducente, è perché sperano di ottenere come contropartita una riduzione delle imposte”. Insomma, una mano lava l’altra. Intanto, però, non con tutti i paesi funziona la ricetta di Trump perché, ad esempio, la Cina, contro l’imposizione di dazi del 10 per cento sui prodotti cinesi, ha non solo deciso contromisure tariffarie del 10-15 per cento sui beni americani e annunciato un’indagine antitrust su Google, ma si è rivolta all’organizzazione mondiale del commercio (Wto) per la risoluzione della controversia. Ma è certo che non sarà questo a fermare il presidente americano.