Il nodo delle imposte
La pressione fiscale aumenta per effetto del fiscal drag
Il governo Meloni ha tagliato il cuneo fiscale, ma le tasse sono scese solo per chi già ne pagava poche o niente. Mentre invece il ceto medio-alto paga molta più Irpef di prima
Il governo dice di aver tagliato le tasse, eppure, la pressione fiscale nel 2024 è aumentata: secondo i dati Istat, nel III trimestre si è registrato un aumento dello 0,8 per cento rispetto al 2023, arrivando al 40,5 per cento. La pressione fiscale è data dalla somma di tutte le imposte e i contributi in rapporto al pil e, quindi, dipende da molte cose che influenzano il numeratore e il denominatore. Ma noi sappiamo dal rapporto del ministero dell’Economia che l’aumento è dovuto soprattutto all’aumento dell’Irpef, pagata in gran parte dal lavoro dipendente.
Il governo ribatte che la pressione fiscale è salita perché è aumentata l’occupazione, ma sebbene sia vero che l’occupazione è salita, e di molto, i redditi sono aumentati molto meno, di conseguenza il peso del lavoro (occupati x salario) è sceso in percentuale del valore aggiunto. Ovvero sono aumentati i posti di lavoro a reddito basso che pagano in proporzione poche o perfino zero tasse.
La pressione fiscale ha cominciato ad aumentare da fine 2023 ed aumentata lungo tutto il 2024. Ciò non può essere dovuto all’incremento dell’occupazione poiché questo genera sì un incremento di reddito e quindi di gettito, ma l’incremento di reddito si contabilizza anche nell’incremento di pil, che figura al denominatore del rapporto che definisce la pressione fiscale. La pressione fiscale può crescere solo se il salario medio aumenta: in tal caso, vista la progressività del sistema di tassazione, l’aumento del gettito, e quindi del numeratore, sarà maggiore di quello del denominatore.
Con i rinnovi dei contratti nel periodo 2021-2024 i salari sono aumentati, ma l’incremento non è stato tale da recuperare l’inflazione e l’Irpef del lavoro dipendente e dei pensionati è aumentata più che proporzionalmente rispetto ai salari per via del sistema fiscale progressivo. Questo fenomeno, che si chiama “fiscal drag”, è alla base dell’aumento della pressione fiscale.
Non c’è da meravigliarsi, era prevedibile. L’Ufficio parlamentare di bilancio lo aveva già detto l’anno scorso: tutte le misure introdotte negli ultimi anni per ridurre la pressione fiscale – dal bonus 80 euro di Renzi al bonus da 100 euro di Gualtieri, fino alla riforma Irpef di Draghi – sono state polverizzate negli ultimi anni dall’alta inflazione. E l’effetto del fiscal drag ha ridotto i redditi disponibili del 3,6 per cento.
La pressione fiscale non è salita quindi per via dell’incremento dell’occupazione, ma per qualcosa che il governo ha sempre provato a nascondere: il fiscal drag. Cioè il fatto che in tempi di inflazione le tasse crescono più dei redditi in maniera automatica. Ciò non avviene per tutti ma solo per i lavoratori dipendenti e i pensionati, e neanche per tutti i lavoratori dipendenti. Come ripete ormai da anni Itinerari Previdenziali, il 60 per cento degli italiani dichiara meno di 15 mila euro di reddito e di conseguenza paga solo l’8 per cento di tutta l’Irpef (che per i redditi del 2022 dichiarati nel 2023 ed elaborati nei mesi scorsi vale 189,5 miliardi), mentre il 15,27 per cento che dichiara più di 35mila euro l’anno paga il 63,4 per cento dell’Irpef.
Era già così prima dell’inflazione e la situazione è peggiorata negli ultimi tre anni, in cui un’inflazione cumulata del 17 per cento drena a lavoratori dipendenti e pensionati circa 25 miliardi di euro sugli ultimi tre anni e continuerà farlo, se non si correrà ai ripari o indicizzando gli scaglioni e le detrazioni, o semplicemente tassando al netto dell’inflazione e poi rivalutando l’imposta con il tasso di inflazione.
Nella legge di Bilancio, il governo Meloni ha stabilizzato per cinque anni il taglio del cuneo fiscale e ha ridotto a tre le aliquote Irpef. Ma il diavolo sta nel dettaglio. E’ vero che ha ridotto le tasse, ma solo su chi già ne pagava poche o niente: sui lavoratori autonomi con il concordato preventivo biennale e sui lavoratori dipendenti sotto i 35 mila euro di reddito. Evidentemente il taglio delle tasse non è stato sufficiente a compensare l’aumento della pressione fiscale sui redditi medio-alti da lavoro dipendente.
Quando negli anni Settanta e Ottanta l’inflazione in Italia era elevata, per un certo periodo lo stato restituì in busta paga ai dipendenti il fiscal drag. Ciò non ha niente a che vedere con il meccanismo della scala mobile che indicizzava i salari, e che giustamente fu poi abolita. Per sterilizzare il fiscal drag, invece, si indicizzarono gli scaglioni Irpef e le detrazioni all’inflazione. Ci chiediamo perché il governo non abbia previsto ed evitato il fiscal drag: chi paga imposte progressive, dipendenti e pensionati, finisce per pagare più tasse di prima.