Oltre Mediobanca

Così il governo con Mps ha guadagnato: 1,2 miliardi

Mariarosaria Marchesano

L'aumento di capitale pagato dal Mef nel 2022 1,6 miliardi di euro ha portato nelle casse dello stato 2,9 miliardi, con una plusvalenza straordinaria

Il ceo di Mediolanum, Massimo Doris, non si schiera, per ora, nella battaglia per la conquista di Mediobanca di cui la private bank fondata da suo padre Ennio è socio storico con il 3,5 per cento e aderisce al patto di consultazione che avrà un peso nel determinare l’esito dell’ops lanciata da Mps con il sostegno del Mef. “Sarà il cda a decidere”, ha affermato Doris, dicendo che non ci sono stati contatti né con il Mef né con l’ad di Siena, Luigi Lovaglio. Una posizione neutrale che, prima o poi, dovrà trovare una sua collocazione, ma è significativo che Doris abbia sottolineato che il “concambio dell’offerta previsto dall’ops è superato dai valori di Borsa”. In effetti, ieri, con Mps che è salita a Piazza Affari dell’1,4 per cento e Mediobanca del 3,2, la differenza di capitalizzazione tra le due realtà si è ampliata, il che vuol dire che l’ops contiene non un premio ma uno “sconto” del 10 per cento per gli azionisti di Piazzetta Cuccia. Ma il cammino è ancora lungo e, intanto, una cosa è certa: il governo Meloni con Mps non ci ha perso ma ci ha guadagnato, a differenza degli esecutivi precedenti. Fino ad oggi, tra la vendita di tre tranche di capitale sul mercato e dividendi 2023 e 2024, Palazzo Chigi ha incassato dalla banca senese una somma di circa 2,9 miliardi. Se si considera che l’aumento di capitale dell’autunno 2022 è costato al Mef 1,6-1,7 miliardi (in proporzione per la sua quota su un totale di 2,5 miliardi), la plusvalenza per il socio pubblico è stata almeno di 1,2 miliardi. Un risultato straordinario considerando che il Montepaschi dieci anni fa era sull’orlo del collasso e si è salvata grazie all’intervento dello stato con costi che nel loro complesso si fa ancora fatica calcolare.

 

E’ anche vero che il governo Meloni è entrato in questa storia quando in Montepaschi era già stato nominato ad Luigi Lovaglio dal governo Draghi, con Daniele Franco e Alessandro Rivera, rispettivamente, ministro e direttore generale del Tesoro. C’è chi  ricorda l’ostinazione con cui Lovaglio a fine 2022 andò a caccia di investitori tra Milano e Londra. E corsi e ricorsi della storia finanziaria più sorprendente di sempre, c’era Mediobanca al suo fianco in quanto global coordinator dell’aumento di capitale. Convincere i fondi ad entrare nel capitale di Siena fu un’impresa difficile, quasi disperata all’epoca si vociferava. Arrivò in soccorso anche una certa “moral suasion” esercitata dal Mef, dove nel frattempo si era insediato Giancarlo Giorgetti, sulle casse di previdenza italiane. Ma è cronaca che alcune di queste entrarono giusto per cortesia istituzionale e ne uscirono dopo breve tempo con una plusvalenza limitata salvo poi pentirsi perché il titolo di Siena da allora non ha mai smesso di correre. Dunque, Piazzetta Cuccia ha aiutato Lovaglio a trovare nuovi investitori che credessero nel processo di risanamento che lui stava impostando e in capo a due anni ne è diventata la preda. Ma questa è la lettura cinica dei fatti perché Lovaglio, nel presentare ieri i risultati del 2024, ha usato toni concilianti dicendo di avere di Mediobanca “grande rispetto”, di non volerne colpire “l’identità” e ribadendo di essere convinto della logica industriale che sta dietro l’offerta pubblica di scambio condivisa con il Mef e con il fronte dei grandi soci italiani di Mps, Caltagirone, Delfin-Del Vecchio, Banco Bpm e Anima. “Un’integrazione senza scosse”: ecco che cosa ha promesso l’ad di Siena all’investment bank italiana guidata da Alberto Nagel con la quale vorrebbe creare “una combinazione potente”. Lovaglio oggi può rivendicare una storia di successo e abilità manageriale con risultati evidenti: Mps ha chiuso il 2024 con un utile di 1,945 miliardi in calo sul 2023 solo perché lo scorso anno c’era stato il contributo di 470 miliardi di riserve rilasciate per il venir meno dei rischi legali. Ma nelle banche quello che conta è la redditività futura. Per questo il Mef ha condiviso l’idea di Lovaglio che è questo il momento per pensare a una aggregazione. Da banchiere navigato, sa bene che è necessario trovare un modo per controbilanciare la perdita del margine d’interesse che inevitabilmente arriverà con la discesa dei tassi Bce. Bisogna approfittare di questo momento d’oro, in cui la banca dispone di capitale in eccesso e di un tesoretto di crediti fiscali, per sposarsi con una realtà che basa la sua redditività su business complementari come le gestioni patrimoniali. Al di là dell’idea del terzo polo cara al governo, questa era anche la logica finanziaria di una fusione di Mps con Banco Bpm-Anima se non fosse arrivato Unicredit.

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