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Nagel Story. Chi è l'uomo che ha trasformato Mediobanca

Stefano Cingolani

L’amministatore delegato che ha reso centrale il wealth management a piazzetta Cuccia si difende, mentre Mps tenta la scalata. Il futuro del terzo polo

Arroccato a piazzetta Cuccia alle spalle della Scala, Alberto Nagel, giunto alla soglia dei sessant’anni, combatte la più difficile battaglia nella sua lunghissima, ventennale carriera in Mediobanca. E’ entrato nel 1991 subito dopo la laurea alla Bocconi e naviga in solitaria dal 2007. Lasciamo da parte strategie finanziarie che cambiano allo stormir dei tassi d’interesse o sofisticate elucubrazioni su Cet, Npl, Dta che tanto appassionano i felici pochi. Alla fine della fiera l’offerta pubblica di scambio lanciata dal Monte dei Paschi appare come l’anteprima di una recita in tre atti: prima si crea un nuovo soggetto, chiamiamolo Mediobanca di Siena, con in mano il pacchetto azionario che consente di controllare Assicurazioni Generali; poi va messo in minoranza colui il quale ha fatto il bello e il cattivo tempo, dicono i suoi nemici, in quel che resta della Galassia del nord; infine cambia il vertice della compagnia triestina. Non è la prima volta che “il salvadanaio degli italiani” è sotto tiro. Al contrario, la storia economica nell’ultimo secolo è segnata da un filo rosso che va dal Centauro al Leone di Trieste. “Centauro con il corpo pubblico e la testa privata”, è come Enrico Cuccia definì se stesso durante un’audizione parlamentare nel 1977. A lui Raffaele Mattioli, il gran capo della Banca commerciale, aveva affidato nel 1946 la Banca di credito finanziario per fare quel che alle banche ordinarie era proibito: prestare a medio termine denari per sostenere la rinascente industria italiana; le tre aziende creditizie dell’Iri (Commerciale, Credito italiano e Banco di Roma) avrebbero emesso obbligazioni a basso interesse per alimentare il circolo virtuoso.

 

Per quasi vent’anni era andata così, poi, finito il miracolo economico, Mediobanca era diventata il caldo rifugio del primo capitalismo, quello delle grandi famiglie che avevano creato l’Italia industriale a cavallo tra Otto e Novecento: Olivetti, Pirelli, Agnelli, Pesenti e tutti gli altri. Dopo la scomparsa del loro Lord protettore, si sono liquefatte. Era impossibile fare il Cuccia senza essere Cuccia e Mediobanca ha mutato pelle più volte, finché proprio Nagel l’ha trasformata in una efficiente organizzazione per gestire la ricchezza di chi vuol diventare ancor più ricco e in una cornucopia per gli azionisti. Si chiama wealth management ed è la pietra filosofale di ogni nuova attività bancaria, ma la moneta viaggia in tutto il mondo e Mediobanca resta una realtà ancora piccola.

 

Era impossibile fare il Cuccia senza essere Cuccia. Proprio Alberto Nagel ha trasformato Mediobanca, che però resta una realtà piccola

             

La mossa dei cavalieri senesi è stata una sorpresa? Forse sì; dicono che fosse nell’aria da ben due anni anche se Mps allora si trovava in un limbo, ma un attacco tanto frontale e massiccio non era facilmente prevedibile. Così Nagel ha smesso di fare il pendolare con Londra dove vive la moglie Roberta Furcolo, ex dirigente di Banca Intesa passata poi al gruppo assicurativo Aon. Appassionata di politica e tifosa di Mario Monti, quando il professore divenne capo del governo lo apostrofò chiedendogli cosa avrebbe fatto contro la casta (quella dei politici of course). Adesso il banchiere, figlio di una coppia pugliese di Barletta dal cognome germanico (il dizionario Oxford sostiene che sia di origine olandese e tedesca e derivi dai fabbricanti di chiodi), è concentrato sul suo destino. Finora ha alzato la barricata rifiutando l’offerta di Mps e tutti aspettano la prossima mossa. Nagel non ha il carattere dell’attaccante, è bravissimo in difesa, ma quando tutto è in movimento non basta.

Tra offerte e rilanci, è una battaglia senza esclusione di colpi, verrà contesa azione su azione, si cercherà di convincere ogni socio, di accontentare gli appetiti dei fondi internazionali sui quali ha sempre contato Nagel. I colpi di scena non mancano, è scesa nell’arena anche Unicredit guidata da Andrea Orcel, comprando un 4 per cento di Generali: sarà lui il cavaliere bianco oppure alza solo la palla? Secondo la vulgata, la fusione tra Mediobanca e Montepaschi serve a creare un terzo polo incuneato, sia pur a grande distanza, tra Intesa Sanpaolo e Unicredit, tutto ciò sotto l’impulso di Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri che guida Delfin, cassaforte lussemburghese degli eredi Del Vecchio: entrambi sono azionisti anche di Mediobanca e Generali. “Il ruolo virile dell’imprenditore”, come diceva Bruno Visentini, dovrebbe vivificare l’“azienda di nessuno” (sempre Visentini) o meglio di chi la gestisce senza capitali propri riscuotendo pingui stipendi (in inglese public company)? La futura Mediobanca di Siena cambierebbe anche i rapporti di forza nella compagnia triestina che Cuccia, insieme al fior fiore della finanza europea, aveva tenuto al riparo da potenti predatori. Negli anni 70 e 80 era stata la Dc (in particolare Giulio Andreotti e poi Romano Prodi) a portare l’attacco contro l’asse “pluto-giudaico-massonico” difeso (strano ma vero) da Bettino Craxi.

 

E’ scesa nell’arena anche Unicredit guidata da Orcel, comprando un 4 per cento di Generali: alza solo la palla?

                           

Era ricca di talenti la nidiata allevata da Cuccia e dal suo fido “Vincenzino” Maranghi (al quale dava sempre del lei). C’erano Gerardo Braggiotti, figlio d’arte (il padre Enrico è stato presidente della Commerciale) e Matteo Arpe che poi risanerà la Banca di Roma per conto di Geronzi. C’erano Renato Pagliaro, il preferito di Maranghi, e Nagel, addetto alla segreteria particolare. La morte del “grande vecchio” nel 2000 apre un triennio turbolento. Le banche azioniste, soprattutto Unicredit e Banca di Roma, intendono riprendersi il proprio ruolo e Maranghi si fa custode testamentario di un’autonomia che molti mettono in dubbio, schivando l’ipotesi che a presiedere la banca vada Mario Draghi. Lo scontro si conclude nel 2003 con le dimissioni del successore di Cuccia il quale impone una guida bicefala affidata a Pagliaro e Nagel, entrambi condirettori generali.

L’anomalo assetto non dura, si oppone la stessa Banca d’Italia e a quel punto Nagel si afferma come il vero capo azienda, mentre Pagliaro resta nell’ombra, schivo e appartato. I due si alleano per bilanciare Cesare Geronzi che diviene presidente nel 2007 dopo la fusione tra Unicredit e Capitalia, ma quando il banchiere romano va a presiedere Generali, Nagel prende il comando. Intanto, la proprietà è già cambiata. C’è l’acchiappatutto francese Vincent Bolloré, chiamato da Maranghi e sostenuto da Antoine Bernheim, il partner della Lazard che punta a Generali; a poco poco il finanziere bretone accumula un bel pacchetto che lo rende il primo azionista e scala Mediaset dell’amico Berlusconi. Si apre un conflitto durissimo e si crea un assetto che assomiglia a un tricorno: da una parte i “foresti”, cioè i francesi, dall’altra i “debitori di riferimento”, gli industriali privati, in mezzo Unicredit e Capitalia. 

Il più grande choc è il crac finanziario del 2008-2009 seguito dalla crisi dei debiti sovrani del 2010-2011 mentre Grecia, Spagna e Italia mettono a repentaglio l’euro. Quando Lehman Brothers fallisce, il lancio di CheBanca!, fortemente voluto da Nagel, sostiene Mediobanca grazie all’accesso alla liquidità dei depositi al dettaglio, salvagente che il colosso americano non aveva a disposizione. Ma in quel biennio di lacrime e sangue, anche a piazzetta Cuccia arriva il fumo dell’incendio. La miccia è il crac del gruppo Ligresti. Don Salvatore, costruttore siciliano radicato a Milano, veniva utilizzato da Cuccia per parcheggiare pacchetti strategici (lo chiamavano Mister 5 per cento). Quando Maranghi gli affida Sai assicurazioni, fa il passo più lungo della gamba. I Ligresti, padre e figli, la “spolpano”, diranno i magistrati. La crisi è l’ultima goccia e nel 2012 arriva il fallimento. Mediobanca, che vi aveva investito circa un miliardo e cento milioni di euro, sta per essere travolta. Nagel, alla ricerca di una soluzione, tenta di concordare una buona uscita dei Ligresti. E registra i loro desiderata in un foglietto di carta scritto a mano, un papello, un pizzino come verrà chiamato. Scoppia un putiferio, interviene l’onnipresente magistratura, Nagel estrae dal cappello Unipol e si salva. Sai passa alla compagnia che assicurava le cooperative rosse, si crea un asse d’acciaio in barba ai francesi, perché Bolloré aveva tentato di far entrare in campo Groupama. Da via Stalingrado a via Solferino: Unipol entra nel salotto buono, anche nel Corriere della Sera. Ma non è finita qui. 

Se un tempo Mediobanca racchiudeva in portafoglio tutto il “capitalismo senza capitali”, dopo l’uscita da Telecom Italia a piazzetta Cuccia rimangono fondamentalmente Assicurazioni Generali e Rcs. Al Leone di Trieste Nagel entra in contrasto con l’amministratore delegato Mario Greco. Al suo posto va Philippe Donnet, francese, già capo di Generali Italia, che si è fatto le ossa alla Axa evocando così lo spettro che “la mucca dalle cento mammelle”, come la chiamò Geronzi, finisca in mani transalpine. Nel 2016 John Elkann, al comando della Fiat Chrysler, decide di mollare Rcs. Urbano Cairo lancia un’offerta pubblica di scambio sostenuto da Intesa Sanpaolo e pochi giorni dopo prende corpo una cordata guidata da Andrea Bonomi e composta da Mediobanca, Diego Della Valle, Carlo Cimbri per Unipol e Marco Tronchetti Provera per Pirelli, insomma il vecchio patto di sindacato più Bonomi. E’ una sconfitta clamorosa seguita da quella per il controllo di Impregilo, numero uno italiano nelle grandi costruzioni, che vede vincitore il gruppo Salini. Due débacle così un tempo sarebbero state impossibili

Cambiare per non scomparire, la scelta è obbligata. A piazzetta Cuccia entrano i più importanti investitori istituzionali come BlackRock, Vanguard, Norges, Ubs. Nel 2019 l’istituto è una vera public company posseduta per circa l’80 per cento dal mercato e si prepara a realizzare un nuovo piano. E’ ormai archiviato il patto di sindacato, mentre il 12,5 per cento del capitale è riunito in un accordo di consultazione che raggruppa (senza vincoli di voto) i Doris, fondatori di Banca Mediolanum insieme a Silvio Berlusconi, che hanno la quota più importante, poi Ferrero, Pittini, Amenduni e altri con piccole partecipazioni. La trasformazione è clamorosa: i ricavi da mercati non domestici salgono dal 2 al 24 per cento, spinti dall’operato del Corporate & Investment Banking e dalla presenza internazionale. Mediobanca diventa un “gruppo bancario con competenze specialistiche” che vale il 50 per cento in più quando nel 2020, quando Leonardo Del Vecchio inizia la scalata con la quale diventerà l’azionista numero uno (senza mai riuscire tuttavia a incidere sulla governance). Lunedì prossimo verranno presentati i conti dello scorso anno e il mercato si aspetta buoni risultati.

A maggio 2023 Alberto Nagel svela l’ultima metamorfosi: il piano strategico “One Brand One Culture” che proietta Mediobanca nella sua nuova vita, quella del wealth management. Piazzetta Cuccia vuole reagire al “darwinismo bancario”, cioè l’effetto di bassi interessi, aumento della regolamentazione e disruption tecnologica, combinando la gestione della ricchezza, la banca d’investimento e il credito al consumo.  Il 28 ottobre l’assemblea degli azionisti rinnova il consiglio di amministrazione con un 52,6 per cento alla lista del cda uscente, il 30 per cento più degli sfidanti, Milleri e Caltagirone. Ora si prepara la rivincita. Nagel si batte per salvare se stesso e nello stesso tempo l’anomalia, o se volete l’unicità di Mediobanca. L’amministratore delegato ha sempre fatto la spola con Londra non con Roma, i suoi rapporti non sono con la politica, ma con i fondi d’investimento e le banche d’affari angloamericane, la più lontana forse è JP Morgan che ha in Europa come riferimento Vittorio Grilli, economista, ex direttore del Tesoro, ragioniere dello stato con Giulio Tremonti e ministro nel governo Monti. Ma Nagel ha trascurato il particolare che ora anche i fondi vanno a Roma.

Caltagirone e Delfin sono due soggetti industriali, quindi la Bce ha posto loro un limite, non possono gestire una banca o una compagnia di assicurazione (nemmeno Delfin che si presenta come una società finanziaria può esercitare il controllo su Mediobanca o su Generali, dovrebbe avere gli stessi requisiti di capitale e di vigilanza proprie di un soggetto bancario o assicurativo) ma possono scegliere chi la gestisce, la amministra e determinarne le strategie. Mps dovrebbe arrivare almeno al 51 per cento di Mediobanca se la Bce non alza il tetto a due terzi del capitale, vista la rilevanza sistemica dell’operazione. Mettendo insieme i soci delle due entità, dato che Milleri e Caltagirone aderiranno, manca poco più del 21-22 per cento. Non è chiara la posizione di Mediolanum, la banca partecipata al 30 per cento dalla famiglia Berlusconi e gestita da Massimo Doris, non si è ancora espressa. Da Forza Italia è arrivato il placet. Un ruolo chiave potrà avere BlackRock, finora alleato di Nagel.        

 

Caltagirone e Delfin sono due soggetti industriali, la Bce ha posto loro un limite: non possono gestire una banca, ma scegliere chi la gestisce sì

                         

Il big boss Larry Fink, che si è allineato anche lui a Donald Trump, è stato ricevuto a palazzo Chigi e sarebbe interessato alla privatizzazione di Poste italiane (il governo vuol ricavare tre miliardi di euro). Il Tesoro detiene l’11,7 per cento di Mps e ha un ruolo tutt’altro che arbitrale nell’intero progetto “Mediobanca di Siena”, insieme a Luigi Lovaglio, l’ad di Montepaschi, e con i preziosi consigli di Grilli. Se fosse abbandonato anche da BlackRock oltre che da Mediolanum, Nagel avrebbe bisogno di un partner importante che chiederebbe subito il conto. Messina osserva quella che considera una “operazione di mercato”, ma per ora “c’è troppa confusione”. Il suo spazio di manovra è ridotto, Intesa è diventata così grande in Italia che potrebbe incappare nell’antitrust e nelle norme della Bce, tuttavia a Piazza degli Affari si dice che la “banca di sistema” potrebbe sempre diventare un punto di equilibrio (nel 2017 aveva cercato di entrare nel capitale di Generali). Crédit Agricole, che possiede soldi e competenza, è fuori perché avrebbe contro il governo.

 

Se fosse abbandonato da BlackRock oltre che da Mediolanum, Nagel avrebbe bisogno di un partner importante che chiederebbe il conto

                       

Tutti gli occhi sono puntati su Orcel il quale ha lanciato l’attacco su un fronte troppo vasto: Commerzbank in Germania, Banco Bpm a Milano e Generali a Trieste. I cultori di strategia militare si chiedono se non finirà come Napoleone. Visto lo stallo, potrebbe vendere il suo 28 per cento nella banca tedesca incassando un bel guadagno e puntare tutto su Bpm e Generali, con o senza Nagel. Il gioco è stato aperto, ma non tutti sono seduti al tavolo verde. E’ una partita di mercato? Forse, ma il mercato ha certe ragioni che la ragione spesso non conosce.