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Foto LaPresse
I dazi del Trump II
Arrivano i dati negativi del 2018 sui dazi, ma Trump non si fermerà
Nuovo tasse sull’import di acciaio e alluminio, ma il precedente del primo mandato del tycoon non ha fatto che indebolire l'economia degli Stati Uniti
Per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, i dazi sono bellissimi. Dopo averli promessi per tutta la campagna elettorale, non appena arrivato alla Casa Bianca ne ha minacciato l’applicazione (senza pretesa di esaustività) contro la Colombia, il Canada, il Messico, la Cina e l’Unione europea. Ora ha precisato meglio le sue intenzioni, preannunciando l’elevazione di un tributo del 25 per cento sulle importazioni di acciaio e alluminio, in aggiunta alle tariffe già esistenti e che dipendono dal paese di provenienza. I principali esportatori di questi prodotti negli Stati Uniti sono il Canada, il Brasile e il Messico, seguiti dalla Corea del sud e dal Vietnam, col Canada che da solo fornisce il 79 per cento dell’alluminio primario. L’Europa dovrebbe esserne colpita solo indirettamente: l’export di acciaio verso Washington è crollato da 3,6 a 2,2 milioni di tonnellate tra il 2014 e il 2023 (su un totale di 25,6 milioni di tonnellate importate in quel medesimo anno e una produzione domestica di 89,7 milioni di tonnellate).
Gli economisti sono generalmente contrari all’utilizzo indiscriminato dei dazi, se non in casi eccezionali e comunque come mezzo per ottenere risultati politici. Trump talvolta ha giocato a questo gioco (per esempio, agitando il bastone dei dazi contro Colombia, Canada e Messico ha ottenuto impegni sul contrasto all’immigrazione illegale e al traffico di droga). Altre volte però è parso genuinamente convinto che si tratta di un valido strumento di politica economica (“tasseremo i paesi stranieri per arricchire i nostri concittadini”, ha detto nel discorso di insediamento) sia per generare gettito fiscale sia per favorire lo sviluppo industriale americano.
Sempre nell’inauguration day, Trump ha richiamato la figura di William McKinley (presidente dal 1897 al 1901) lodandolo perché con la sua politica protezionista “ha reso il nostro paese ricchissimo grazie ai dazi e al talento”. Senza bisogno di andare indietro di un secolo o di rievocare altri esempi storici, c’è un modo semplice per farsi un’idea di quali potrebbero essere le conseguenze: l’esperienza dei dazi voluti da Trump durante il suo primo mandato. L’escalation ebbe inizio a gennaio 2018 con le prime tariffe del 30-50 per cento sui pannelli solari e le lavatrici cinesi, ma la vera botta arrivò due mesi dopo, a marzo, con l’introduzione di tariffe del 25 per cento sull’acciaio e del 10 per cento sull’alluminio provenienti da mezzo mondo; a giugno, li estese ai partner commerciali più stretti, quali il Canada, il Messico e l’Unione europea. Quasi subito, alcuni paesi (tra cui la Cina e l’Unione europea) reagirono con misure ritorsive, mentre altri riuscirono a ottenere un’esenzione: Corea del sud, Argentina, Australia e Brasile. Nella sostanza quel sistema è ancora in vigore, con una parziale sospensione voluta da Joe Biden a favore di un limitato volume di acciaio e alluminio interamente realizzato all’interno dell’Unione europea. Per il resto, l’Amministrazione Biden ha confermato e, in alcuni casi, rafforzato la politica protezionistica del suo predecessore. E’ su queste misure che si innestano i nuovi balzelli.
Gli effetti sono stati ampiamente studiati. La Tax Foundation, un think tank favorevole alla riduzione delle tasse e certo non pregiudizialmente ostile alla nuova amministrazione, ha stimato che “i dazi di Trump e Biden ridurranno [nel lungo termine] il pil dello 0,2 per cento, lo stock di capitale dello 0,1 per cento e l’occupazione di 142 mila posti di lavoro”. Per quanto riguarda invece le nuove restrizioni su Canada, Messico e Cina, “ridurranno il prodotto dello 0,4 per cento e faranno aumentare la pressione fiscale di 1.100 miliardi di dollari tra il 2025 e il 2034, corrispondenti a un rincaro di oltre 800 dollari a famiglia”. Altre indagini hanno trovato risultati analoghi, mostrando, da un lato, che il neo-protezionismo trumpiano ha indebolito (non rafforzato) l’economia americana, dall’altro che esso ha scatenato la reazione degli altri paesi mettendo a repentaglio la tenuta dell’intero sistema commerciale internazionale. Di fatto, i dazi trumpiani hanno fatto la felicità dei settori protetti, ma si sono scaricati a valle sulle industrie utilizzatrici di acciaio e alluminio (come quella dell’automobile), rendendola meno competitiva.
Per l’Europa, l’impatto diretto è stato limitato: secondo le stime del Joint Research Center (il centro studi della Commissione europea) l’effetto sull’export di metalli è stato dell’ordine dell’1 per cento. Più significativo è stato l’impatto indiretto: i dazi di Trump hanno infatti colpito maggiormente altri paesi (quali la Cina, l’India e la Russia, all’epoca non ancora sconfinata in Ucraina e quindi non sanzionata), che hanno tentato di riversare l’eccesso di produzione sul resto del mondo, Europa compresa, che ha risposto adottando misure di salvaguardia per i propri produttori siderurgici e ponendo dazi specifici, per esempio sulle moto Harley Davidson e sul bourbon. D’altronde, Trump insiste sullo squilibrio della bilancia commerciale tra Unione europea e Stati Uniti (fa spesso l’esempio delle automobili) ma i dati sono meno netti: se l’Europa ha un saldo commerciale positivo per 156 miliardi di euro nel mercato dei beni, è importatrice netta di servizi per 104 miliardi).
Un’altra bizzarra uscita di Trump è relativa alla reciprocità nella politica commerciale: il presidente ha detto che renderà pan per focaccia ai partner commerciali: “Loro ci fanno pagare e noi li faremo pagare”. Ma – si è chiesto ironicamente Scott Lincicome del Cato Institute – questo significa che gli Stati Uniti abbasseranno i dazi sui paesi che già oggi li hanno più bassi dei nostri? Il livello medio della protezione daziaria negli Stati Uniti si aggira attorno al 2,72 per cento (1,49 per cento se si considera la media pesata): si tratta di un livello ben superiore, per esempio, rispetto a quello che si applica all’export americano in Europa (1,95 per cento e 1,33 per cento, rispettivamente). A suo modo Trump è coerente nell’invocare i dazi come soluzione a qualunque problema; ma la realtà è coerente nel dimostrare che si tratta di un rimedio peggiore del male.