(Ansa)

Un garbato dissenso sull'ultima lezione di Mario Draghi

Oscar Giannino

Chi ama l’Europa deve avanzare in nome dell’efficacia soluzioni contundenti, che nel modello Draghi non si vedono e il vertice straordinario sull'Ucraina convocato da Emmanuel Macron ne è stata una dimostrazione lampante

Chi scrive ammette di aver maturato molti anni fa un debole verso Mario Draghi, e quando dico molti anni intendo quando ancora serviva la Repubblica nel ministero che oggi si chiama Mef. Una figura di riferimento per pensiero e azione. Eguale giudizio quando ha servito l’Europa alla presidenza della BCE. Giudizio attenuato quando fu chiamato alla presidenza del Consiglio, e dovette fare i conti con una maggioranza di governo squinternata, che badava più a frenare le riforme che ad altro, poiché doveva difendere misure disastrose che aveva oscenamente varato quando era al governo (vedi Superbonus e prepensionamenti...). Giudizio ancora molto buono la scorsa estate, quando presentò il suo fantastico piano per la competitività europea in cui metteva alla berlina tutti gli errori commessi dall’Unione Europea e, rivolgendosi alla nuova Commissione Europea che si sarebbe formata, indicava decine e decine di misure molto concrete la rapida necessità di mettervi riparo. Altrimenti, il gap di competitività già gravissimo verso USA e Cina su investimenti e produttività, autonomia strategica e tecnologie di punta, si sarebbe ulteriormente accresciuto in una parabola discendente di vero e proprio declino mondiale.


Quando però dal rischio potenziale si passa in maniera accelerata e tumultuosa a un gravissimo rischio immediato e reale, allora anche i giudizi devono cambiare. E sono chiamate a farlo anche le persone più capaci e integre e del più impeccabile profilo di civil servant della nostra Repubblica e dell’Unione Europea. Come Mario Draghi. Nessuno tra i suoi fan e tra chi lo conosce davvero è mai stato sfiorato dall’ombra della delusione per la sua renitenza a incarichi politici, né rimase sorpreso quando iniziò presto ad avvedersi che averlo chiamato a palazzo Chigi era il solito ricorrente giochino dei partiti verso i governi tecnici, considerati interim necessari per assumere alcune decisioni sgradevoli e necessarie, ma a patto di non credere di poter mai incidere davvero in profondità. E tuttavia, di fronte all’ultimo intervento di Draghi sul Financial Times di qualche giorno fa, è amaro dirlo ma bisogna ammetterlo: c’è motivo non per esserne soggettivamente delusi, cosa che lascia il tempo che trova, ma per esserne concretamente in dissenso. Senza alcuna pretesa, ovviamente, di credere che il proprio dissenso sia minimamente paragonabile all’autorevolezza e all’impatto che automaticamente si associano agli interventi pubblici di Mario Draghi. Ma senza per questo dover rinunciare al proprio dovere di fastidiosa pulce anche nella criniera del più fiero leone.


Aveva ancora pieno senso a dicembre, quando Draghi intervenne a Parigi al simposio europeo del Centre for Economic Policy Reasearch, rimettere in fila alcuni dei punti fermi del suo report estivo: la necessità di passi immediati per un vero Mercato Unico del Credito e del Risparmio, una svolta a favore della produttività in assenza della quale i Paesi membri non solo cresceranno meno ma non saranno neanche in grado di sostenere le loro passività previdenziali, l’allarme contro chi avesse creduto che gli Stati Uniti di Trump avrebbero continuato a svolgere il ruolo di acquirente di ultima istanza di prodotti europei. E via continuando. Ma ora no. Non basta più. I richiami analitici ai molteplici gap europei devono obbligatoriamente essere integrati da rimedi immediati, perché è la drastica accelerazione imposta – non certo a sorpresa – in poche settimane da Trump a richiedere soluzioni altrettanto immediate e di emergenza. E chi ama l’Europa deve essere pronto ad avanzare in nome dell’efficacia anche soluzioni contundenti, rispetto ai riti e miti bizantini del concerto istituzionale europeo che impiega anni e non settimane, per dispiegarsi e contorcersi tra mille compromessi. 


Il vertice straordinario sull’Ucraina convocato da Macron ne è stata una lampante dimostrazione. Se l’Europa non vuole restare a guardare la trattativa bilaterale tra Trump e Putin sulla pelle degli ucraini, non c’è tempo e non ha senso convocare i 27 Paesi membri, perché il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa nelle ultime due settimane ha riservatamente toccato con mano che tra i 27 non c’è affatto unanimità. Bisogna invece essere disposti subito a mettere insieme i paesi membri che non vogliono una vittoria di Putin, non dimenticando le sue minacce a Polonia e Paesi baltici, e non sono disposti a vedere la Nato trattata come un fastidioso orpello, rispetto alle priorità russo-americane che sembrano allinearsi indifferenti ai valori di libertà, autonomia e autodeterminazione. Un esercito europeo e una difesa europea comune non esistono, ergo chi ama l’Europa deve essere disposto a volerle costruire oggi e subito tra chi ci sta, e a difendere questa cooperazione rafforzata anche contro ogni vestale dell’Europa funzionalista pronta ad obiettare che nei Trattati queste cose non ci sono e farle in questo modo significa rompere l’Unione. Churchill dichiarò guerra ai nazisti pur sapendo di essere solo, a Francia ormai sconfitta e occupata, non aspettò Pearl Harbor per farlo. La scelta oggi è una sola: tra un’Europa che accetti passivamente lo spirito di Monaco che muove Trump all’appeasement con Putin, convinto di preservare gli interessi dell’Impero Americano come Chamberlain credeva di mantenere intatto l’Impero Britannico tenendolo fuori dallo scontro coi nazisti; oppure tra un’Europa anche non unitaria ma pronta a non voltare le spalle all’Ucraina. 


La prontezza a misurarsi con tempi decisionali ristretti e misure drastiche non si limita al problema Ucraina e al Medio Oriente. Riguarda anche il tema prioritario posto proprio da Draghi nel suo intervento sul Financial Times: l’enorme innalzamento di barriere interne realizzato negli anni con l’enorme ipertrofia normativa di norme comunitarie e nazionali che hanno impedito la nascita di big players continentali, e abbattuto la crescita potenziale comune molto più di quanto possano fare pesino i nuovi dazi minacciati da Trump. Norme rigide in tutti i campi, come la GDPR sula protezione dei dati e l’AI ACT sull’Intelligenza Artificiale, il Green Deal e il Fit for 55, gli ETS la CBAM. Draghi torna a sgolarsi sulla necessità che l’Unione compia una “svolta radicale” su tutto questo. Ma intanto ha visto la luce la Bussola della Competitività della nuova Commissione UE, e le riposte snocciolate in 47 riforme, con tanto di cronoprogramma per la loro presentazione diluito in 4 anni, è tutt’altro che una svolta rapida ed energica per affrontare il tellurico mondo nuovo di Trump, Putin e Xi Jinping. Su ciascuna di queste sfide, bisogna essere disposti, anzi bisogna lavorare esplicitamente, a consensi ristretti tra chi condivide subito strumenti e priorità. E’ impossibile aspettare i tempi dilatati di ogni eventuale riforma istituzionale europea. E’ il momento di battersi per un’Europa diversa. Ed è la migliore risposta ai sovranismi populisti di destra e sinistra. Se coloro che sono giustamente considerati oggi nel mondo i più autorevoli portavoce di un’Europa protagonista e non serva, e Draghi è il numero uno di questa ristretta lista, non avvertono la necessità di soluzioni contundenti, resteranno a svolgere solo il ruolo di grilli parlanti. Ma oggi servono api operose e coraggiose, non grilli. 

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