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Foto ANSA
Fra mercato e politica
Contro il refrain che “è tutta colpa delle privatizzazioni”
Luci e ombre nella storia della gestione privata dei grandi asset nazionali. Una rassegna per sfatare i falsi miti
Sono state davvero un fallimento le privatizzazioni sulle quali da quasi trent’anni ci si accapiglia? Da destra come da sinistra prevale un sonoro sì. E’ diventato un luogo comune che il “pensiero unico mercatista” abbia smembrato, svenduto, distrutto una parte importante del capitale della nazione. Guardate come sono finite le telecomunicazioni, le autostrade, l’acciaio – si dice. Telecom oggi Tim, Autostrade per l’Italia e Ilva sono da un quarto di secolo società con azionisti privati in maggioranza, ma circolano più progetti per tornare indietro, magari creando un nucleo forte controllato dal governo.
Pochi oggi sono disposti a difendere le privatizzazioni e anche chi non se la sente di attaccarle, sostiene che sia prevalsa una logica finanziaria, senza una politica industriale e un progetto di lungo periodo. E’ vero, bisognava vendere per far cassa, ridurre il debito, prepararsi per l’euro. Ma un progetto c’era e anche una politica industriale. Intanto la cessione delle aziende di stato va inserita in un vasto processo di modernizzazione che parte dalla nascita dell’Antitrust (cento anni dopo gli Stati Uniti), passa attraverso nuove leggi sul mercato finanziario, l’apertura ai fondi d’investimento stranieri, la privatizzazione delle banche. Non va dimenticato che i maggiori artefici (da Giuliano Amato a Giuseppe Guarino, da Romano Prodi a Mario Draghi) pur diversi per cultura e collocazione politica, avevano in mente di creare “un nuovo capitalismo italiano” per sostituire il capitalismo delle grandi imprese famigliari che si erano arrese ai tempi nuovi, al big bang dei mercati, alla globalizzazione.
Edoardo Reviglio, già capo economista della Cassa depositi e prestiti, figlio di Franco Reviglio ex ministro delle Finanze e presidente dell’Eni, è tra i pochi che non si sono lasciati prendere da eroici furori e in un suo ampio studio cerca di capire e spiegare che cosa ha funzionato e che cosa è andato storto. “E’ chiaro il tentativo di fare le privatizzazioni con una logica di politica industriale – sottolinea – Ci si è riusciti? In parte sì, anche se non mancano gli errori e le occasioni perdute. Tre i grandi fallimenti, Telecom, Autostrade e Ilva, per quanto gravi, non possono esimerci dal dare una valutazione tutto sommato positiva”.
Cominciamo con il cosiddetto strapotere del mercato. Ebbene, Eni, Snam, Terna, Ansaldo Energia, Saipem, Italgas, Enel, Leonardo, Poste, Sace, Autostrade, Anas, Fs, Fincantieri, sono ancora a controllo pubblico e rappresentano le maggiori imprese italiane. Tra i privati, solo Stellantis può tenere loro testa per fatturato, occupazione e valore di Borsa. Quindi attenti a sottovalutare quanto sia ancora ampio il peso della mano pubblica rispetto alla “mano invisibile” del mercato. Tuttavia oggi le partecipazioni statali sono diverse da quelle di un tempo proprio grazie alla più evidente disciplina introdotta dal mercato. “Il nucleo di controllo dello stato e un’ampia e frazionata base azionaria sembra essere emerso, dopo tante discussioni su public company o nocciolo duro, come un buon modello”, aggiunge Reviglio. E’ una versione moderna dell’antica economia mista, è uno “stato imprenditore” un po’ più “mercatista”. Ciò ha aumentato l’efficienza e ha trasformato anche la governance, favorendo “il buon governo delle imprese”. Resta aperta e non risolta la questione delle nomine appannaggio della politica. Tema che deborda anche nelle società private considerate “di interesse nazionale” come le Assicurazioni Generali.
Il cosiddetto strapotere del mercato. Ebbene, Eni, Snam, Terna, Ansaldo Energia, Saipem, Italgas, Enel, Leonardo, Poste, Sace, Autostrade, Anas, Fs, Fincantieri, sono ancora a controllo pubblico e sono le maggiori imprese italiane. Tra i privati, solo Stellantis può tenergli testa
Negli anni 90 le privatizzazioni hanno seguito tre modelli. Il primo è la public company preferita da Prodi, il secondo è il noyau dur in mano ai privati, cavallo di battaglia di Enrico Cuccia, il terzo è quello misto prevalso in tutte le privatizzazioni in capo al Tesoro allora guidato da Draghi. Quest’ultimo è oggi prevalente, come abbiamo detto, il primo si è affermato via via nelle banche dove si è ridotto il peso delle fondazioni a partire dalla crisi finanziaria. Il nocciolo privato (diventato nocciolino) ha vissuto lo spazio di un mattino nella “madre di tutte le privatizzazioni”, quella di Telecom Italia. I privati l’hanno mal gestita, è questa l’idea prevalente, ma si dimentica che i governi le hanno spesso impedito di diventare un’impresa come tutte le altre.
A ogni cambio di maggioranza politica è cambiata in Telecom la proprietà, non solo la gestione. Cominciamo dall’Opa di Roberto Colaninno, favorita dal governo D’Alema il quale impedì a Franco Bernabè, ad di Telecom, il matrimonio con Deutsche Telekom. L’offerta pubblica di scambio (non sollecitata, quindi ostile) ha portato una ventata d’aria fresca nel cortile di casa, in un sistema economico-finanziario in cui tutte le partite si decidevano in famiglia, cioè in Mediobanca, tra quelli che erano chiamati “i debitori di riferimento”, o nelle stanze del governo. Era una scalata finanziata indebitandosi come tutti i leveraged buy-out (oggi caduti per lo più in disuso), per rimettere a posto i conti ci volevano una continuità proprietaria, una strategia adeguata e un gran polso. Nei primi tre anni, dal 1997 al 2000 si sono succeduti i tre governi (Prodi, D’Alema, Amato), poi nel 2001 ha vinto Silvio Berlusconi, Colaninno ha mollato le redini a Marco Tronchetti Provera che ha lasciato nel 2006 quando Prodi è tornato a Palazzo Chigi. Subentrano le banche, poi arriva nel 2007 la spagnola Telefonica che dura fino al 2013. Un anno dopo entra Vincent Bolloré con Vivendi, e si apre un’altra girandola azionaria: prima la scalata francese, poi la risposta della Cassa depositi e prestiti con il fondo Elliot che uscirà via via. Vivendi e Cdp restano l’un contro l’altro armati. Viene venduta la rete, una decisione politica che si trascinava da tempo; considerata strategica è andata al fondo Kkr e al Tesoro contro la volontà di Vivendi che resta sull’Aventino con il suo 24 per cento di azioni. Adesso tutto lo scenario cambia di nuovo con l’ingresso delle Poste che prendono il 9,8 per cento di Cassa depositi e prestiti, ma possono anche salire. Con o contro Vivendi? Arriverà anche qualche altro azionista di rilievo? L’ennesimo risiko telefonico è appena cominciato.
La siderurgia è stata un “fallimento” parziale. Ha funzionato la Dalmine acquistata dalla Tenaris dei Rocca. La Cogne va prima alla famiglia Marzorati e dal 2022 alla cinese Walsin. Piombino, che faceva soprattutto binari, acquistata prima da Lucchini passa all’algerina Cevital che vende alla indiana Jindal; ora la Danieli e l’ucraina Azovstal hanno deciso di creare un nuovo polo siderurgico. Terni acciai speciali presa dai Krupp, dopo un lungo e accidentato percorso è controllata dal gruppo Arvedi. L’Ilva è un caso per molti versi disperato. E’ stata rilanciata dai Riva espropriati di fatto dopo una furente campagna, politica mediatica giudiziaria, per aver mancato il risanamento ambientale; affittata al gruppo Arcelor-Mittal, ridimensionata per la chiusura parziale degli altiforni, l’acciaieria che un tempo era la più grande d’Europa torna nelle mani del governo: è ancora alla ricerca di un futuro e di una proprietà stabile.
Arriviamo ad Autostrade. I Benetton sono stati estromessi dopo il crollo del Ponte Morandi: ritenuti responsabili in ultima istanza, sono stati liquidati con 8 miliardi di euro. Lega, Cinque stelle e Fratelli d’Italia si sono accaniti in una campagna contro la sinistra, il Pd e Prodi, accusati di aver favorito gli ex re dei maglioncini. La privatizzazione è stata chiamata svendita. Un’analisi oggettiva non può non riconoscere che è stato speso troppo poco per la manutenzione, la modernizzazione, la sicurezza stessa della rete e oggi occorrono giganteschi investimenti che non potranno pesare solo sulla Cassa depositi e prestiti azionista con il 51 per cento. Ma i Benetton sono stati davvero dei cattivi imprenditori? E allora perché con gli aeroporti hanno fatto bene? Fiumicino è diventato il numero uno in Europa per efficienza, puntualità, organizzazione. Il Dottor Jekyll e Mister Hyde? Le autostrade sono un “fallimento del mercato” o anch’esse della politica?