“Un po' di disturbo”. Gli effetti negativi dei dazi di Trump sull'economia americana

Luciano Capone

“I dazi servono a rendere l’America di nuovo ricca e grande", dice il presidente. Secondo analisi di Tax Foundation, Brookings, Wsj e Piie sono un danno enorme per l'economia: -0,5% del pil ogni anno, -223mila occupati. I più colpiti sono gli elettori di Donald: -1.200 dollari a famiglia

“Ci sarà un po’ di disturbo, ma per noi va bene. Non sarà molto”, ha detto Donald Trump nel discorso al Congresso, in una parziale ammissione di reazioni negative alla valanga di dazi da lui imposti o annunciati. “I dazi servono a rendere l’America di nuovo ricca e grande, e sta accadendo piuttosto in fretta”, ha comunque aggiunto il presidente degli Stati Uniti. Ma la realtà è molto diversa. “I dazi sono tasse, e gli ultimi dazi del signor Trump sono pari a circa 150 miliardi di dollari di aumento delle tasse all’anno. Le tasse sono anti crescita”, ha scritto in un editoriale il Wall Street Journal, che pure non è un media antagonista dell’Amministrazione repubblicana.

I nuovi dazi del 25% sulle importazioni dal Canada e dal Messico (oltre a un dazio addizionale del 10% sulla Cina) sono entrati in vigore martedì 4 marzo, ma le trattative sono ancora in corso. Ancora ieri il segretario al Commercio statunitense, Howard Lutnick, diceva che era in corso una valutazione rispetto ai dazi su Messico e Canada, accennando alla possibile esenzione di alcuni settori. “Penso che sarà da qualche parte nel mezzo. Quindi non il 100% di tutti i prodotti e non nessuno”, ha detto Lutnick. In serata, la Casa Bianca ha annunciato la sospensione per un mese dei dazi imposti a Messico e Canada per le case automobilistiche, dopo che Trump ha parlato con i vertici di Ford, General Motors e Stellantis.

Evidentemente, l’Amministrazione sta seguendo con attenzione quel “po’ di disturbo” che si vede sui mercati finanziari, con il crollo dei listini borsistici, e con le proteste di vari settori industriali colpiti che vedranno aumentare notevolmente i propri costi di produzione dato che importano molti input e beni intermedi. Oltre alle imprese, i più colpiti dalla nuova ondata di tasse sono, ovviamente, i consumatori e in particolare quelli che hanno votato per portare il candidato repubblicano alla Casa Bianca: “I dazi di Trump colpiscono gli elettori di Trump” è il titolo dell’editoriale del Wsj, che definisce l’amore forsennato per i dazi del presidente degli Stati Uniti come “il trionfo dell’ideologia sul buonsenso”.

Il problema, per quanto Trump si sia circondato di yes man, è che l’economia non si adegua alla sua ideologia né obbedisce ai suoi ordini esecutivi. Diversi think tank indipendenti in questi giorni stanno producendo studi e analisi d’impatto dei dazi dell’Amministrazione Trump e i risultati sono tutti negativi. Secondo la Tax Foundation, organizzazione nonpartisan e tra le più autorevoli sulla politica fiscale, i nuovi dazi del 25% sulle importazioni da Canada e Messico ridurranno la crescita di lungo termine dello 0,2% del pil, faranno perdere ore di lavoro equivalenti a 223 mila occupati a tempo pieno e porteranno a una contrazione dei redditi dello 0,6% al netto delle imposte. 

A conclusioni analoghe arriva la Brookings Institution. Secondo il think tank, i dazi su Canada e Messico riducono la crescita degli Stati Uniti dello 0,25% del pil, dato che in caso di ritorsioni da parte dei due paesi vicini arriverebbe allo 0,3% del pil (una perdita di produzione stimata tra 45 e 75 miliardi di dollari). L’impatto ovviamente è negativo anche per l’occupazione: da 177 mila a 400 mila posti di lavoro in meno, secondo Brookings. Naturalmente il danno, in rapporto alla dimensione dell’economia, è maggiore per Messico e Canada che subiranno una perdita di pil e occupazione che va dall’1% al 3%, in base anche all’intensità delle loro contromisure.

Per giunta, i dazi su Canada e Messico non sono gli unici annunciati da Trump. Nell’arsenale ci sono quelli sulla Cina e sull’Unione europea, oltre a quelli generalizzati su alluminio & acciaio e sugli autoveicoli e la componentistica auto (per ora sospesi per un mese sull’import da Messico e Canada). Sempre senza considerare l’effetto delle ritorsioni, secondo la Tax Foundation, allo 0,2% di pil annuo perso a causa dei dazi su Messico e Canada, si deve aggiungere un altro 0,1% ciascuno per i dazi sulla Cina e sull’automotive, uno 0,2% per i dazi sull’Unione Europea e uno 0,05% per i dazi sull’alluminio. In totale fa oltre mezzo punto di pil perso ogni anno.

D’altronde l’aumento delle tasse, e la conseguente restrizione del commercio, è senza precedenti nel Dopoguerra. Secondo la Tax Foundation, l’aliquota tariffaria media su tutte le importazioni salirebbe dal 2,5% nel 2024 – livello a cui si è attestata dopo l’introduzione dei dazi Trump-Biden – al 13,8%: si tratta dell’aliquota media sulle importazioni più alta dal 1939, quando gli Stati Uniti stavano smantellando lo Smoot-Hawley Tariff Act, la norma che aumentò notevolmente i dazi aggravando e prolungando la Grande Depressione. 

Nel complesso, secondo la Tax Foundation, i dazi su Messico, Cina e Canada aumenteranno quest’anno le entrate fiscali federali di 142 miliardi di dollari, il che equivale a un aumento medio delle tasse di 1.072 dollari per ogni nucleo familiare statunitense. Una stima analoga a quella del Peterson Institute for International Economics (Piie), secondo cui il costo dei dazi per la famiglia mediana statunitense è di oltre 1.200 dollari all’anno. Un bel controsenso per chi aveva votato Trump per l’incapacità dell’Amministrazione Biden di contrastare l’inflazione. Ma è “solo un po’ di disturbo”, garantisce Trump.
 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali