I mercati mostrano il re nudo

L'argine a Trump si chiama Wall Street

Luciano Capone

La politica sui dazi de presidente degli Stati Uniti è un misto di bluff e autolesionismo. L’"arte del deal" è diventata un atto di fede, ma i mercati stanno perdendo fiducia: il re è già nudo, e per questo evoca i complotti

L’aspetto più surreale delle dichiarazioni di Donald Trump nello Studio ovale, mentre firmava l’executive order con cui – due giorni dopo l’introduzione – ha rinviato di un mese i dazi del 25% su Messico e Canada, è la motivazione con alla base della retromarcia: “Avrebbe danneggiato le case automobilistiche americane”. In effetti, era esattamente la richiesta dei vertici di Ford, General Motors e Stellantis nel colloquio con il presidente. E i mercati hanno confermato: dopo la sospensione dei dazi, i titoli delle tre case automobilistiche sono volati in borsa. Il problema, però, è che Trump aveva finora giustificato i dazi con la ragione opposta: far tornare l’America grande e rafforzare la manifattura a stelle e strisce.

Un’altra risposta singolare del presidente degli Stati Uniti è stata data alla domanda sulla reazione negativa di Wall Street ai suoi dazi: “Penso che siano i globalisti che vedono quanto sarà ricco il nostro paese, e questo non gli piace”. Una teoria  abbastanza singolare: gli investitori notano che gli Stati Uniti si avviano verso un boom economico e vendono in massa anziché comprare. 

La realtà, invece, è molto più semplice e lineare rispetto alle due risposte incoerenti di Trump. Dopo la sua vittoria in autunno, in tanti hanno creduto alla sua promessa di rifare l’America grande: la fiducia degli americani è aumentata e i listini a Wall Street si sono gonfiati. Credevano che i dazi fossero solo una minaccia, un’arma negoziale per arrivare a un “deal”, e che a prevalere sarebbero stati la deregulation e il taglio delle tasse. Il primo mese di governo, però, ha mostrato un film totalmente diverso: il processo decisionale si è rivelato estremamente caotico, i cambi repentini – con introduzione di dazi, sospensioni e rinvii – hanno alimentato incertezza e panico, facendo crollare la fiducia sia degli investitori che dei consumatori.

Non è neppure chiaro quale sia il disegno di Trump né quali obiettivi persegua. Gli uomini più in vista dell’Amministrazione, dal segretario al Commercio Howard Lutnick al segretario al Tesoro Scott Bessent, non sembrano avere idea della strategia ma ripetono che bisogna scommettere su Trump perché lui sa negoziare. Ma cosa? L’“arte del deal”, la proverbiale capacità di Trump di stringere accordi e fare affari, è diventata qualcosa di mistico, un atto di fede: noi non capiamo cosa sta succedendo ma lui sa cosa fare, sembra ripetere il team Donald. Ma i mercati non hanno fede, hanno fiducia. Che, se manca la credibilità, tende a svanire rapidamente. 

Una delle tesi più ricorrenti all’inizio della nuova Amministrazione era che Trump è un uomo da “deal” e che i dazi, per lui, sono solo un mezzo per raggiungere un fine. Anche in base a questa narrazione, inizialmente i mercati sono stati a guardare dando credito alla tesi del bluff o della pistola sul tavolo. In realtà, dopo poche settimane, gli atti di governo hanno dimostrato il contrario: per Trump i dazi sono un fine in sé più che uno strumento. C’è da credergli quando dice che “tariff” è la parola più bella del dizionario: è, per lui, la soluzione o il punto di caduta per qualsiasi problema politico o economico.

Trump ha giustificato i dazi su Messico e Canada con la lotta all’immigrazione clandestina e al traffico di droga (Fentanyl), e li ha anche sospesi per i progressi dei paesi confinanti su questi due fronti. Ma, in realtà, il giorno prima dell’entrata in vigore, ha dato una giustificazione economica e di politica industriale: “Avranno una tariffa, e quello che devono fare è costruire i loro stabilimenti automobilistici negli Stati Uniti, nel qual caso non ci saranno tariffe”. Due giorni dopo, li ha sospesi per un mese  perché, dice, anziché far arrivare negli Usa nuove fabbriche, i dazi avrebbero danneggiato quelle che già ci sono.

La politica commerciale è completamente incoerente anche con quella fiscale. Il segretario al Tesoro Bessent aveva definito il suo piano “3-3-3”: 3% di crescita del pil, riduzione del deficit fiscale al 3% e incremento della produzione di petrolio di 3 milioni di barili al giorno. I dazi, com’era prevedibile, stanno deprimendo la crescita (allontanando l’obiettivo del 3%). Ma l’interrogativo più grande riguarda il deficit che, con il rinnovo dei tagli fiscali in scadenza, sale al 7%. Bessent ha detto che il gettito dei dazi potrà avere un ruolo “sostanziale” per ridurlo al 3%. Ma se i dazi devono garantire un flusso di entrate per il bilancio, significa che le merci dovranno continuare a essere importate in massa; se però l’obiettivo di Trump, attraverso i dazi, è ridurre l’import e il deficit commerciale, vuol dire che il Tesoro non potrà contare su quelle entrate. La contraddizione è insolubile. 

Come può un paese con un deficit al 7%, e un debito crescente, costruire una politica fiscale sui dazi? Per far quadrare un bilancio non serve l’“arte del deal”, ma la concretezza dell’aritmetica. Wall Street non crolla perché perché gli investitori sono “globalisti”, ma perché sanno fare di conto. E al momento, almeno fino alle elezioni di mid term, i mercati sono l’unico argine al caos di Trump.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali