(foto EPA)

conflitto d'interesse nazionale

Come reagire, da destra, al trumpismo

Carlo Stagnaro

I dazi fanno male all’America, e anche a noi. Una pace sbrigativa con Putin danneggerebbe l’Ucraina, e anche l’Europa. Dunque, che può fare Giorgia Meloni? Tutte le sfumature del compromesso né con Trump né senza una politica conservatrice

All’indomani dell’agguato teso da Donald Trump e J.D. Vance a Volodymyr Zelensky nello Studio ovale, Giorgia Meloni ha commentato così: “Ci sono dei momenti nei quali non c’è bisogno di fare polemica per forza, io ho detto quello che penso: questo è il tempo in cui le persone serie lavorano per ricomporre, non lavorano per dividere ulteriormente”. E’ una posizione pacata e seria per la premier Meloni. Ma Giorgia, la leader del più importante partito italiano, dovrebbe fare – o affidare ai suoi – una riflessione più profonda.

La destra italiana ed europea, nelle sue varie declinazioni, si trova in una posizione impossibile. Da un lato, è schiacciata sulle posizioni del presidente americano, con cui condivide l’appartenenza alla medesima famiglia politica, oltre ad alcune battaglie contro l’estremismo woke, gli eccessi green e via discorrendo.

Dall’altro lato, è evidente che le politiche della Casa Bianca non possono che danneggiarci. Non potendo né sganciarsi da Trump né allinearsi, la premier dovrà continuare a barcamenarsi. Come ha scritto Giuliano Ferrara, “il rischio è l’irrilevanza, appunto il defilamento obbligato, l’incapacità di elaborare politiche e iniziative che non siano passive”. Ma nella scomoda posizione in cui si trova, la capa di Fratelli d’Italia può anche sfruttare un’opportunità di riposizionamento. Ancora Ferrara: “L’opportunità è la capacità di parlare a tutti, Trump compreso, ma all’interno di una scelta di schieramento e di identità strategica che legittimerebbe definitivamente e senza riserve Meloni come un’esperienza di stato importante nell’Europa contemporanea e nel mondo”. A dispetto delle sue intemperanze, a questa scelta non può sottrarsi neppure Matteo Salvini, il quale avrà sempre più difficoltà a giustificare il trumpismo di fronte agli imprenditori del nord inferociti (sempre che gli interessi del nord siano ancora una sua preoccupazione). Perfino l’atlantismo di Antonio Tajani dovrà interrogarsi di fronte a un’amministrazione volubile, capricciosa e ostile ai tradizionali alleati (e ai relativi scambi commerciali). La sveglia il “partito del pil” l’ha suonata sul Foglio di mercoledì, dove Claudio Cerasa ha raccolto numerose e unanimi testimonianze di malessere. 


I dazi americani impoveriscono l’America e, attraverso di essa, il mondo. Prendere le distanze da Trump non è solo un fatto di attualità politica, ma anche  una contorsione intellettuale: per farlo, il centrodestra deve fare ammenda per tutte le sciocchezze economiche abbracciate in questi anni


Quando i colonnelli del centrodestra arriveranno finalmente al redde rationem politico e intellettuale, non potranno che trarne implicazioni ampie: sia relative agli interlocutori internazionali, sia alle proprie convinzioni politiche. Spesso, essi hanno espresso opinioni analoghe a quelle oggi predicate da Trump, per esempio nell’ostilità alle liberalizzazioni e alla concorrenza. Ma oggi questa strada diventa impraticabile: come si può, al tempo stesso, riconoscere che il protezionismo trumpiano ci ferisce e poi giocare a fare il Trump in sedicesimo, invocando noi stessi dazi e protezioni? Paradossalmente, quelle stesse politiche difensive che a lungo sono state un pilastro essenziale della narrazione economica del centrodestra, oggi sono contrarie al nostro “interesse nazionale”, comunque definito, quanto meno perché darebbero alla Casa Bianca una giustificazione per insistere sull’attuale linea anti-liberoscambista. 
Né si può pensare che, blandendolo, Trump potrà avere un occhio di riguardo verso il nostro paese.  Anzitutto, l’evidenza di questo primo mese mostra che non ha alcuna remora a colpire gli amici: i dazi più feroci sono piombati su due fedeli alleati degli Usa (Messico e Canada). Sul piano politico, a farne le spese sono anzitutto i suoi compagni di schieramento, dal canadese Pierre Poilievre alla leader dell’opposizione venezualana, Maria Corina Machado, alle prese con la minaccia di espellere i connazionali che hanno cercato rifugio negli Usa, dalla segretaria di AfD Alice Weidel, che probabilmente non ha tratto beneficio dall’endorsement di J.D. Vance ed Elon Musk, fino all’argentino Javier Milei, costretto a cancellare le tracce del suo appoggio all’Ucraina perché non può perdere il supporto Usa nel Fondo monetario internazionale. L’immagine più iconica è quella del leader della Brexit, Nigel Farage, che annuisce convintamente a un discorso parlamentare di Keir Starmer. Ma, politica a parte, è proprio l’economia a tracciare un solco tra gli Stati Uniti e l’Europa.
I dazi
Il cuore della politica economica di Trump è il ritorno al protezionismo. Non è una storia cominciata oggi né una svolta: è dalla Grande Recessione del 2008 che il mondo va in tale direzione. E non è stato il solo Trump a picconare l’Organizzazione mondiale del commercio e gli altri presidi dell’ordine commerciale multilaterale: Joe Biden ci ha messo del suo, paralizzandone l’attività. L’Europa stessa in questi ultimi anni ha affossato o rallentato la conclusione dei trattati di libero scambio, a partire da quello transatlantico (il Ttip) che, se oggi fosse in vigore, ci darebbe un qualche conforto in più. Ma non c’è dubbio che l’inizio del secondo mandato di Trump rappresenta uno scatto quantitativo e qualitativo.
I dazi di Trump, beninteso, faranno (e stanno già facendo) male soprattutto agli Stati Uniti. Come diceva Henry George, il protezionismo è la teoria per cui dovremmo fare a noi stessi in tempo di pace ciò che i nostri nemici cercano di farci in tempo di guerra. Infatti, i prezzi di una molteplicità di beni stanno crescendo negli Stati Uniti: dalle uova all’energia elettrica. Con essi, crescono inevitabilmente i costi di produzione di altri beni che li utilizzano come input. Il caso scuola è quello delle automobili, che in alcuni casi varcano il confine col Messico e il Canada anche otto volte. A ogni passaggio i dazi aggiungono costi che in ultima analisi si scaricano sui prodotti e sui consumatori americani: si stima che questo aggiungerà tra gli otto e i nove mila dollari al prezzo di listino dei pickup made in Usa. La Borsa americana ha immediatamente ripiegato e le minacce di ritorsioni, in primis dalla Cina, non fanno che alimentare il vento ribassista. 
Il danno verso i partner commerciali si manifesta attraverso tre canali, uno diretto, due indiretti. In primo luogo, l’obiettivo dei dazi è rendere i prodotti esteri meno competitivi sul mercato interno. Quindi, i consumatori americani consumeranno una minore quantità di quei prodotti e li pagheranno di più; ma, complessivamente, ne acquisteranno un po’ di più prodotti in casa e un po’ di meno di importazione. Quindi, i dazi riducono la quota di mercato delle imprese estere nel mercato di riferimento (ed è precisamente il loro scopo). Detto in parole semplici: il protezionismo danneggia i consumatori nazionali e i produttori esteri. 


Il principio è che la guerra di aggressione non è uno strumento accettabile per la risoluzione delle controversie internazionali. Il messaggio è che, da oggi e diversamente dal passato, questo modo di condurre le relazioni internazionali diventa accettabile, o comunque non comporta alcuna reazione automatica



Ma non finisce qui. Il muro di Trump lascia fuori, oltre ai prodotti europei, anche quelli provenienti dalla Cina e da altre parti del mondo. A parità di domanda extra-americana, questi beni in eccesso si riversano sugli altri mercati, riducendone i prezzi. Una buona notizia per i consumatori, forse, ma pessima per le imprese produttrici. Per giunta, l’applicazione dei dazi non può che rallentare la crescita economica dei paesi che li applicano: poiché gli Stati Uniti sono uno dei mercati più importanti e dinamici del mondo, il protezionismo ha conseguenze enormi sull’intera economia globale. 
In sostanza, i dazi americani impoveriscono l’America e, attraverso di essa, il mondo; inoltre le imprese che prima esportavano i propri prodotti negli Usa si trovano a fronteggiare una concorrenza più agguerrita sugli altri mercati e a perderne uno vasto e ricco. Questo lo riconosce la stessa Meloni. Ma è necessario fare un passo ulteriore e coglierne le implicazioni politiche e ideologiche. L’implicazione politica è che Meloni ha ogni interesse a scongiurare i dazi o a trovare strumenti per mitigarne l’impatto. Per ragioni uguali e simmetriche a quelle esposte, la soluzione non può arrivare da altre ritorsioni commerciali: ciò farebbe male anzitutto agli europei. Se un dazio è una tassa sul paese importatore, allora ci troveremmo nell’assurdità che, per rispondere alla tassa di Trump sugli americani, noi finiremmo per tassare gli europei. Né Meloni può cavarsela facendo leva sul suo rapporto personale col presidente americano. Egli è insensibile a questi atteggiamenti, che semmai ritiene comunque dovuti. Se anche non fosse così, le economie europee sono fortemente integrate. Molto dell’export italiano negli Usa consiste di prodotti intermedi che concorrono alla realizzazione di beni in altri paesi Ue: c’è più made in Italy in un’auto tedesca che in un carro di parmigiano. Quindi Meloni deve trovare interlocutori alternativi: in Europa, per autorevolezza e affinità, necessariamente Friedrich Merz, che la premier ha ogni vantaggio ad abbracciare e tenersi stretto. 


Razionalizzare la nostra spesa pubblica serve oggi a due obiettivi: lasciare spazio per finanziare una politica di difesa adeguata ai tempi e porre le premesse per rendere l’economia più competitiva. La politica economica ed estera di Trump costituisce una minaccia chiara e attuale alla sicurezza economica italiana ed europea



Questo cambio di atteggiamento avrebbe pure una ricaduta, per così dire, ideologica, senza metabolizzare la quale qualunque elaborazione politica rimane fragile e sterile. I dazi che oggi in mano a Trump ci spaventano, sono stati per lungo tempo patrimonio della coalizione di centrodestra. La quale si è spesso e volentieri schierata contro la ratifica di trattati di libero scambio con lo stesso argomento, che cioè essi avrebbero aperto le porte alle imprese estere. E proprio in questo momento il più importante accordo degli ultimi anni, quello col Mercosur, è ostaggio dell’Italia, senza il cui parere favorevole è destinato a schiantarsi (Francia, Austria, Polonia e Olanda si sono già schierate per il no, quindi il nostro paese, unendosi a loro, farebbe superare la minoranza di blocco del 35 per cento della popolazione europea). Prendere le distanze da Trump non è solo un fatto di attualità politica, ma anche e soprattutto una contorsione intellettuale: per farlo, il centrodestra deve fare ammenda per tutte le sciocchezze economiche abbracciate in questi anni, dalla sbornia per l’uscita dall’euro al rigetto del commercio internazionale. 
L’Ucraina
L’altro grande argomento è l’Ucraina. La posizione netta e coerente che la premier ha preso – fin dalla scorsa legislatura – contro l’invasione russa è stata il suo lasciapassare per ottenere la benedizione dell’establishment europeo e americano. Sebbene il contributo del nostro paese alla difesa di Kyiv sia stato limitato in termini pratici, il suo significato politico non dovrebbe essere sottovalutato. Ora però Trump ha completamente cambiato le carte in tavola: non a caso, i paesi che hanno maggior bisogno del supporto americano, cioè Israele per ragioni militari e l’Argentina per il sostegno del Fmi, all’Onu non hanno appoggiato la risoluzione a favore dell’Ucraina. 
Sarebbe bello pensare che la posizione di Meloni sull’Ucraina fosse frutto della convinzione e non dell’opportunismo. La solidità con cui finora ha tenuto il punto, nonostante le resistenze dentro e fuori il centrodestra, sembra deporre a favore di questa tesi. La difesa dell’Ucraina risponde a un chiaro interesse strategico dell’Italia e dell’Europa (e, in realtà, degli stessi Stati Uniti). L’appeasement verso il Cremlino è diverso rispetto alla ricerca pragmatica di una fine delle ostilità, che può anche comportare delle concessioni. Un condono de facto verso l’invasione russa rappresenterebbe un’inversione di rotta rispetto al faticoso sforzo di costruire un orizzonte pacifico. Infatti, in gioco non c’è solo la libertà dell’Ucraina o la credibilità della Nato: ci sono, soprattutto, un principio e un messaggio. Il principio è che la guerra di aggressione non è uno strumento accettabile per la risoluzione delle controversie internazionali. Il messaggio è che, da oggi e diversamente dal passato, questo modo di condurre le relazioni internazionali diventa accettabile, o comunque non comporta alcuna reazione automatica.
Il punto della questione, insomma, non è il poco realistico rischio che, dopo l’Ucraina, Putin muova i suoi carri armati verso i paesi baltici o la Polonia, e forse neppure verso paesi che, pur non appartenendo all’Ue, sono a essa strettamente legati. Il tema, per certi versi, non riguarda strettamente la Russia. Ben altri stanno seguendo con attenzione gli eventi: cioè tutti coloro che nutrono mire espansive e che finora si sono trattenuti per timore di una reazione. Come ha scritto la studiosa e attivista libertaria Vera Kichanova, è illusorio pensare che l’avvicinamento alla Russia possa essere una efficace mossa di contenimento verso la Cina, che Trump ha evidentemente individuato come principale antagonista. “Premiare la guerra di aggressione – ha twittato Kichanova – incoraggerà la Cina, l’Iran e chiunque altro abbia ambizioni territoriali”.
In un senso molto esplicito, la resistenza dell’Ucraina (e dunque il suo attivo supporto, anche con le armi) fa parte della battaglia non per difendere un territorio, non per difendere un principio, ma per difendere un intero ordine. Il che è molto diverso dall’idealizzare l’Ucraina o la sua integrità territoriale. Se alcune parti del paese volessero secedere – per rendersi indipendenti o persino per aderire alla Federazione russa – il problema andrebbe affrontato in sede internazionale, organizzando procedure trasparenti e libere per consentire alle comunità interessate di autodeterminarsi in periodo di pace. Certo la soluzione non può essere chiudere gli occhi di fronte a una guerra d’invasione.  
Abbandonare l’Ucraina al suo destino non sarebbe solo una tragedia umanitaria. Avrebbe – anzi avrà, anzi sta avendo – pesanti ripercussioni economiche. Più il quadro globale si fa fragile, più aumenta la percezione di insicurezza, e più gli investitori si ritirano e sono meno disponibili ad assumersi rischi. 


Allontanarsi da Trump non comporta  l’abbandono dell’armamentario concettuale della destra italiana. Su molti punti essa può  mantenere il suo orientamento ed esprimere,  in linea con Trump, un atteggiamento conservatore: immigrazione, “culture wars” e politiche green, per fare solo alcuni esempi


Questo senso di incertezza diventa ancora maggiore se si mettono assieme i due assi della politica estera di Trump: sanzioni sugli alleati (dazi) e pacche sulle spalle agli avversari (l’appoggio al Cremlino). Tre economisti americani – Scott Baker, Nick Bloom e Steven Davis – hanno sviluppato anni fa un indice sull’incertezza politico-economica, che tiene conto sia di variabili qualitative (il modo in cui i giornali trattano le questioni economiche), sia quantitative (come la convergenza o divergenza delle previsioni economiche) e che tengono costantemente aggiornato. Ebbene, l’ultima edizione del lavoro – aggiornata a febbraio 2025 – mostra che negli Stati Uniti si è raggiunto un picco senza precedenti negli ultimi quarant’anni. Il continuo balletto metti i dazi-togli i dazi su Canada e Messico spiega bene perché.
La politica di Trump, ad appena un mese dal suo insediamento, ha dunque gli stessi effetti di una gigantesca tassa scaricata anzitutto sull’economia americana, e poi sulle altre economie globali, specialmente quelle con cui le interconnessioni sono maggiori. Se anche la destra italiana (o parte di essa) non condivide la battaglia per la libertà dell’Ucraina, o sotto sotto tifa per Putin, essa ha un chiaro e netto interesse a emanciparsi dalle bizze della Casa Bianca, perché queste ci stanno infliggendo un danno concreto. Le dimensioni del nostro debito pubblico e la necessità di rifinanziarlo sui mercati ci rendono un sismografo sensibilissimo alle scosse che agitano l’economia globale. 
L’inevitabile sterzata nella politica europea di difesa dovrà pertanto calarsi in un contesto di finanza pubblica problematico. L’idea di cavarsela ammettendo il ricorso al debito e sperando in qualche margine addizionale di flessibilità rispetto ai parametri di Maastricht è anch’essa illusoria e fuorviante; e l’ipotesi di lasciare maggiore spazio fiscale agli stati membri può produrre esiti paradossali. Dopo i castelli del Superbonus, di cui ha scritto Luciano Capone, avremo i castelli ristrutturati a debito per scopi di difesa? Il disimpegno americano è in realtà in parte la conseguenza di un punto su cui Trump non ha tutti i torti: l’Unione europea si è a lungo affidata al tutoraggio americano. Ora che le priorità degli Usa sono cambiate, la nostra politica deve adeguarsi: e se davvero riteniamo che la sicurezza globale sia anche una nostra responsabilità, dobbiamo agire di conseguenza, senza scassare i conti pubblici. Ne segue, necessariamente, che occorre costruire forme di cooperazione transeuropea nel campo della difesa – e ancora una volta il nostro riferimento obbligato è Merz – e per farlo sarà necessario riprendere in mano la partita della spending review. 

 

La gestione del ministro Giancarlo Giorgetti è rigorosa e improntata non solo alla necessità ma anche alla convinzione sull’importanza del rigore: ma finora si è avuta la sensazione che egli sia una figura isolata nel governo, che si fa carico di comunicare ai colleghi la sgradita notizia che, se vogliono spendere di più su un capitolo, devono spendere di meno su un altro. L’unica risposta possibile alla minaccia trumpiana, sotto questo profilo, è un rafforzamento della disciplina fiscale: Giorgetti dovrebbe smettere di essere il grillo parlante del governo e dovrebbe invece essere riconosciuto come il depositario di una linea politica solida e convinta. Se il governo vuole (come dice di volere e come dovrebbe) tagliare le tasse, in un contesto di maggiore e più focalizzata spesa militare, non può che calare la motosega sul bilancio pubblico. E anche in questo, retorica a parte, si tratta di compiere un deciso scarto rispetto alla politica trumpiana, che – al netto del caos di Elon Musk e del Doge – non sembra consapevole della drammatica condizione dei conti pubblici ereditati da Biden, e che non potranno che peggiorare se Trump farà quello che dice di voler fare in campo fiscale. Quindi razionalizzare la nostra spesa pubblica serve oggi a due obiettivi: lasciare spazio per finanziare una politica di difesa adeguata ai tempi e porre le premesse per rendere l’economia più competitiva.

Comprendere Trump per contrastare Trump
Serena Sileoni ha scritto che “Trump è la realtà che ha sfondato la porta, dopo aver smesso di bussare perché nessuno apriva”. In questo può persino avere una funzione terapeutica, se non fosse che lo fa mettendo a repentaglio l’economia e la sicurezza globali. Ma la sfida – che pure riguarda tutti – tocca principalmente quelli che ne sono stati gli interlocutori preferenziali. Meloni – unica premier europea a presenziare al suo insediamento – si trova nella posizione più scomoda, da cui può però trarre delle opportunità. Anzitutto per sé stessa, portando a termine il processo di sdoganamento messo in moto prima delle elezioni del 2022; e poi, e soprattutto, per il paese.
Diversamente dalla sinistra, che di fronte a Trump reagisce con un misto tra riflessi condizionati e fascinazione per una politica estera che in parte condivide, Meloni può articolare una posizione diversa. Più faticosa ma più fruttuosa. Anzitutto è importante comprendere Trump: sia nelle ragioni che ne hanno determinato la vittoria, figlia in misura non banale dei clamorosi errori di Biden sull’economia e non solo; sia negli obiettivi strategici che si pone; sia nella sua imprevedibilità. Capire Trump, le sue motivazioni e i suoi scopi, è fondamentale non per seguirlo, ma per contenerlo. Se la premier davvero ritiene che il bene della “Nazione” o della “Patria” (maiuscole d’ordinanza) debba essere la stella polare della sua politica, oggi un elemento è chiaro: l’interesse comune non sta nell’allinearsi a Trump, se non tatticamente e su questioni limitate, ma nel prenderne le distanze. La politica economica ed estera di Trump costituisce una minaccia chiara e attuale alla sicurezza economica italiana ed europea. 
Allontanarsi da Trump e sviluppare nei suoi confronti un atteggiamento più distaccato e opportunistico, d’altronde, non comporta necessariamente l’abbandono dell’armamentario concettuale della destra italiana. Su molti punti essa può ovviamente mantenere il suo orientamento ed esprimere, come ha fatto finora e in linea con Trump, un atteggiamento conservatore: immigrazione, “culture wars” e politiche green, per fare solo alcuni esempi. Non è in discussione né il suo diritto di farlo, né su questi temi deve trovare chissà quali convergenze: saranno gli elettori a giudicare se un atteggiamento di chiusura culturale corrisponde alle loro aspirazioni. E saranno le opposizioni a proporre un approccio diverso, proponendo agli elettori di condividerlo. 

Quello che invece diventa sempre più importante è riconoscere che il trumpismo non è un marchio vincente in Europa, a causa delle decisioni concrete della Casa Bianca. C’è anche di peggio: Meloni condivide con Trump (e con gran parte della destra a livello globale) l’ostilità per le politiche “woke”, a cui il presidente americano rappresenta una risposta. Spesso però non sembra volerle semplicemente contrastare o eliminare: le rovescia nel loro opposto. L’annuncio della stretta contro le manifestazioni nei campus americani è uguale e contraria all’intolleranza di quella sinistra che ha scatenato una reazione così potente da parte dell’elettorato americano. Allo stesso modo, tra non rendere obbligatorie le metriche sulla diversità e l’inclusione e vietarne l’adozione da parte delle imprese c’è la stessa differenza che separa la libertà d’impresa da due diverse forme di interventismo pubblico, uguali e contrarie. Bisogna quindi fare estrema attenzione nel seguirne le orme o nell’associarsi a lui. Esattamente come Trump è la reazione a quegli eccessi, è possibile che un domani assisteremo a un riflusso “woke” in risposta alle esagerazioni trumpiane. Questa oscillazione tra crescenti gradazioni di peggio non va amplificata, va smorzata. L’unico modo per farlo è prendere una posizione seria contro ogni imposizione: non a favore delle imposizioni di volta in volta più vicine alla sensibilità di chi sta al potere. 

 

Pur mantenendo le sue idee su questi temi, insomma, ve ne sono altri su cui la destra italiana dovrebbe fare autocritica. Ammettere che i dazi trumpiani sono per noi una minaccia – cosa che ormai riconoscono tutti – non può stare assieme alla nostalgia per il protezionismo. Riconoscere i rischi del disimpegno dall’Ucraina significa ammettere che l’Europa deve sviluppare una propria politica di sicurezza e di difesa, la quale non può né essere demandata ai singoli stati membri in ordine sparso, né essere esternalizzata agli Usa. Prendere atto di tutto ciò significa accettare l’integrazione economica europea come orizzonte irrinunciabile per l’Italia: con tutti i suoi difetti, l’Europa e l’euro hanno agito da rete di protezione per il nostro paese e continuano a farlo persino nell’attuale congiuntura. Ne segue che tali difetti non dovrebbero condurre a rottamare l’Europa, ma ad aggiustarla. Non a fare i furbetti per dribblare le politiche europee che riteniamo dannose per specifiche constituency (per esempio i balneari) ma trovare nell’Europa una garanzia per tutti. L’abbiamo imparato molto bene, e sulla nostra pelle, con il rilassamento della disciplina degli aiuti di stato in epoca Covid: la destra italiana lo ha chiesto per anni insistentemente, e – verrebbe da dire – ha avuto quel che meritava. Ha cioè scoperto che, in quella partita, gli stati con i bilanci più solidi avrebbero fatto strame di quelli come l’Italia, finanziariamente più fragili. E ha compreso, suo malgrado, che le precedenti regole, pur apparendo ottuse, avevano invece un senso. Ecco: lo stesso percorso di autocoscienza andrebbe esteso a molti altri aspetti, in primis la politica commerciale. 

Riflettere sui fondamenti della propria azione politica e sul mutato contesto sarebbe un segno di maturità. Giorgia Meloni può restare sé stessa a prescindere da Trump; non ha bisogno del presidente americano per far percepire la propria alterità rispetto ad avversari e alleati. Da appassionata lettrice del Signore degli Anelli, sicuramente ricorda le sagge riflessioni di Barbalbero: “Io non sono dalla parte di nessuno, perché nessuno è del tutto dalla mia parte… Ci sono però, beninteso, casi in cui io sono del tutto dalla parte opposta”. Non le parole o i pensieri di Trump, ma i suoi atti hanno creato questa situazione: Meloni dovrebbe prenderne atto e agire di conseguenza.

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