LaPresse

Guerra commerciale

I danni dei dazi di Trump sul vino italiano spiegati a Lollobrigida

Carlo Stagnaro

Il ministro dell'Agricoltura fa spallucce di fronte alla minacce di Trump ed è convinto che i nostri prodotti continueranno ad essere acquistati anche a prezzi più alti. Ma i numeri e la logica lo smentiscono 

Un dazio tira l’altro. Ieri Donald Trump ha minacciato di alzare fino al 200 per cento i dazi su vini, champagne e altri prodotti alcolici europei se l’Unione europea confermerà le nuove tariffe su alcuni prodotti americani, come le Harley-Davidson e il bourbon. Queste ultime sono la risposta europea ai dazi degli Stati Uniti del 25 per cento sull’acciaio e l’alluminio, introdotti il 12 marzo, e quelli annunciati su molti altri prodotti  che dovrebbero entrare in vigore il prossimo 2 aprile (salvo ulteriori giravolte del presidente americano). La situazione è dunque tesa e a rischio di escalation. In tale contesto, i governi europei stanno facendo di tutto per scongiurare la guerra tariffaria. 

   

Secondo una ricerca di Cia (Agricoltori italiani) e Nomisma “l’export agroalimentare negli Usa è cresciuto del 158 per cento in dieci anni e oggi gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di riferimento mondiale per cibo e vino Made in Italy, con 7,8 miliardi di euro nel 2024”. Il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, è ancora più netto: “Con tariffe di queste sproporzioni, i nostri produttori di vino perderebbero il partner commerciale numero uno al mondo”. E’ quindi curioso che il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, invece di cercare una soluzione, faccia spallucce. Intervistato da WineNews il giorno prima dei nuovi dazi annunciati da Trump, ha cercato di confortare gli operatori del settore con un argomento curioso: “Dobbiamo essere abbastanza spaventati ma non terrorizzati dai dazi – ha detto Lollobrigida – perché i prodotti premium continueranno a essere acquisiti da coloro che li scelgono, i quali li scelgono non sulla base del prezzo basso ma del prezzo giusto. Se un prodotto è di qualità sei disposto a pagarlo un po’ di più”. Ci sono due errori, uno fattuale, l’altro logico.

   

L’errore fattuale riguarda il posizionamento di mercato dei prodotti italiani. Per esempio, l’Unione italiana vini (Uiv) avverte che i nostri non sono beni “di lusso” ma si rivolgono prevalentemente a un pubblico popolare. Almeno l’80 per cento del nostro export si colloca in una fascia di prezzo che non supera i 4,18 euro al litro franco cantina e, sullo scaffale del supermercato americano, non supera i 13 dollari. I vini di lusso valgono appena il 2 per cento dei volumi esportati. Quindi l’applicazione di un sovrapprezzo del 25 per cento, per non dire del 200 per cento, potrebbe avere un impatto assai rilevante sul 98 per cento dell’export di vino. Lo stesso vale per molti altri beni italiani  destinati alle tavole americane. Del resto, se davvero Lollobrigida crede che un incremento di un quarto del prezzo non avrebbe effetti sensibili sulle vendite, allora sta implicitamente accusando le imprese italiane di non saper fare il proprio mestiere. Detto in altri termini: se i consumatori americani sono disposti a pagare il 25 o il 200 per cento in più per l’amarone o il parmigiano, senza ridurre i consumi, significa che in tutti questi anni i produttori italiani hanno fatto uno sconto di pari misura ai loro clienti a stelle e strisce. Naturalmente non è così: i venditori devono trovare il giusto equilibrio tra i margini e le quantità. Più alzi il prezzo, maggiore è il margine sulla singola bottiglia; ma il reddito d’impresa dipende anche dal numero di bottiglie vendute, e un produttore troppo avido rischierebbe di rimanere con le cantine piene di vino invenduto. Evidentemente, la domanda degli americani è più elastica di quanto sospetti Lollobrigida. 

   

“Paradossalmente – prosegue il ministro – sui prodotti premium i dazi rischiano di portare un effetto inflativo, e non deflativo come ci si aspetta, perché non sono prodotti imitabili”. Forse non sono imitabili ma sono certamente sostituibili. E la scelta tra un prodotto più buono e uno meno buono dipende anche dalla differenza di prezzo: quanto sono disposto a pagare per  un vino migliore? Uno, dieci o cento euro al litro? Dei gusti non si discute, ma neppure delle scelte conseguenti. Che i dazi abbiano effetto inflativo non è un paradosso, ma l’obiettivo dichiarato del protezionismo che intende, appunto, proteggere i produttori nazionali dalla concorrenza estera: se i prodotti stranieri fossero peggiori e più costosi, non ci sarebbe bisogno di dazi! Che i dazi possano avere un effetto deflativo non se lo aspetta proprio nessuno, tranne Lollobrigida. Questo potrebbe spiegare perché, oltre a essere indifferente ai dazi di Trump, egli spesso li invoca in Italia e in Europa e si oppone ai trattati di libero scambio: è forse convinto che i dazi servano ad abbassare i prezzi?

Di più su questi argomenti: