In Aula da Marchionne. Un discorso del 2011, utile da rileggere nel giorno di Elkann in Parlamento

Sergio Marchionne

Si può parlare di automotive uscendo dagli schemi del particolare e ragionando sugli interessi generali, senza lagne e con una visione? Il discorso dell’ex della Fiat alla Camera, con spunti sull'Italia di ieri, di oggi e di domani

Pubblichiamo l’estratto dell’audizione tenuta alla Camera, il 15 febbraio del 2011, dall’allora amministratore delegato del Gruppo Fiat, dottor Sergio Marchionne, con qualche spunto sull’Italia di ieri e quella di oggi e forse anche quella di domani


   
Vengo ora all’Italia. Non si può parlare dei progetti che abbiamo senza partire da un esame serio e lucido della situazione italiana. Il nostro paese sconta da molti anni un forte deficit di competitività. Qualunque classifica prendiate sui migliori paesi al mondo dove avviare un’impresa nei primi posti non troverete l’Italia che, invece, è nella top ten dei paesi dove questo costa di più.

   

La scarsa competitività dell’Italia rappresenta un grave handicap ed è una minaccia: erode la crescita di redditi e  salari

  
Il livello degli investimenti stranieri è ridotto al minimo; molte aziende hanno chiuso negli ultimi anni e altre hanno trasferito altrove le loro attività. L’Italia registra una cronica performance al di sotto della media europea ed ha attraversato tre fasi recessive negli ultimi dieci anni. In un contesto in cui il commercio globale costituisce il principale motore di crescita della zona euro, la scarsa competitività dell’Italia rappresenta un grave handicap ed è una minaccia perché erode la crescita di redditi e di salari, limitando la domanda interna e impedendo al paese di sfruttare la domanda estera. Non è la prima volta che mi trovo a descrivere la situazione dell’Italia, una situazione che tutti voi conoscete molto bene. Dalle mie esperienze passate nel lavoro come nella vita ho imparato che solo facendo i conti con la realtà, solo tirando fuori i problemi dal cassetto è possibile risolverli e creare qualcosa di migliore. Se vogliamo davvero imprimere una svolta strutturale dobbiamo iniziare a lavorare sui fatti. L’Italia nel mondo è ancora sinonimo di eleganza, di stile, di creatività. I nostri prodotti, dalla moda alle automobili, al cibo, sono apprezzati e sono ricercati, ma le nostre aziende non possono e non devono essere costrette ad abbandonare il paese perché mancano le condizioni per produrre in modo competitivo. Non lo possiamo accettare per due motivi: primo, perché significa rendersi complici del declino italiano; secondo, perché esiste un’alternativa. “Fabbrica Italia” è nata con questa convinzione e con questo obiettivo. Non solo non era un atto dovuto, ma non abbiamo mai chiesto sovvenzioni né aiuti di Stato per portarla avanti. E’ un progetto nato per nostra iniziativa, perché da azienda multinazionale conosciamo bene la realtà che sta al di fuori del nostro paese e la qualità della concorrenza. E’ nato dalla nostra volontà di aggiornare il metodo operativo degli stabilimenti italiani e di adeguarli agli standard necessari per competere. Questa è la verità. La verità è che la Fiat è l’unica grande azienda che ha deciso di investire in questo paese in modo strutturale. Non possiamo e non vogliamo pensare che l’unica strada per aumentare la produttività e l’efficienza della rete industriale della Fiat sia quella di delocalizzare. Nonostante tutti i vincoli e le difficoltà che esistono in Italia, noi siamo convinti che il nostro sistema produttivo possa e debba essere competitivo. Il piano che abbiamo presentato è la nostra scommessa, il nostro modo per dire che l’Italia non è un paese da abbandonare, ma è una sfida che si può vincere. Vogliamo eliminare le inefficienze del nostro sistema produttivo nel paese e creare una base sana su cui far crescere la produzione, le esportazioni e le opportunità di lavoro.

 

 Non  vogliamo pensare che l’unica strada per aumentare la produttività e l’efficienza sia delocalizzare”

 
Vogliamo dare il nostro contributo perché l’Italia abbia l’opportunità di aprirsi al mondo e di giocare la sua partita alla pari. Abbiamo le capacità e, soprattutto, la volontà per capovolgere quelle classifiche e per creare un sistema produttivo efficiente e affidabile. Il perché abbiamo deciso di prendere questo impegno e di scommettere sull’Italia è presto detto: la Fiat fa parte di questo paese ed è un pezzo importante della sua storia, e vogliamo che resti un pezzo importante del suo futuro. Lo facciamo pensando a quello che da sempre la nostra azienda rappresenta per l’Italia e al rapporto che ha con il paese. Lo facciamo perché riteniamo che sia un nostro dovere favorire il paese in cui Fiat ha le proprie radici. Desidero ribadirlo ancora una volta, la Fiat non ha alcuna intenzione di lasciare l’Italia. Lo dimostra anche il fatto che giovedì scorso abbiamo acquisito il 50 per cento della VM Motori di Cento, che ci permetterà di completare il forte know-how della Fiat nel campo dei diesel e di allargare la nostra offerta ai motori di grossa cilindrata, che non abbiamo mai avuto.

 

All’Italia abbiamo destinato 20 miliardi di euro; 4 miliardi sono investimenti diretti a Fiat Industrial, mentre il resto, pari a 16 miliardi, è previsto per Fiat Spa. Nel dettaglio, di questi 16 miliardi investiamo circa il 65 per cento per Fiat Group Automobiles, il 15 per cento per i marchi di lusso e il 20 per cento per i motori e l’attività della componentistica. Nell’ambito degli investimenti previsti per la Fiat Group Automobiles i costi relativi all’attività di ricerca e di sviluppo sono compresi tra i 3,5 e i 4 miliardi di euro. Queste sono le cifre che rappresentano il nostro impegno per rafforzare la presenza in Italia trasformandola in una base strategica per la produzione, investimenti ed export.

 
Nei limiti della riservatezza necessaria a non favorire la concorrenza, si tratta di un piano chiaro e molto dettagliato, certamente molto più preciso di quelli presentati dai nostri competitor.

 
L’obiettivo di “Fabbrica Italia” è quello di incrementare gradualmente i volumi di produzione di autovetture nei nostri impianti italiani arrivando, nel 2014, a raggiungere 1 milione 400 mila unità, più del doppio rispetto alle 650.000 prodotte nel 2009. L’aumento è ancora più significativo se lo confrontiamo con un anno disastroso come il 2010, quando siamo arrivati appena a 561.000 vetture. A questo va aggiunta la produzione dei veicoli commerciali leggeri, il cui obiettivo è quello di arrivare a 250.000 unità annue rispetto alle 150.000 del 2009 e alle 190.000 del 2010. In totale, il piano di “Fabbrica Italia” è quello di raggiungere nel nostro paese la produzione di 1 milione 650 mila veicoli nel 2014. Tutto ciò avrà anche un impatto positivo sull’export. L’obiettivo è di produrre in Italia, entro il 2014, oltre un milione di veicoli destinati all’esportazione, di cui circa 300 mila per il mercato statunitense. La percentuale delle esportazioni crescerà, quindi, dal 50 per cento dell’anno scorso al 65 per cento nel 2014. Questo piano rappresenta anche una grande opportunità per creare nuovi posti di lavoro in Italia e per aumentare i salari.

 
Quando un sistema non è in grado di competere, purtroppo, sono i lavoratori e le loro famiglie a pagarne direttamente, e senza colpa, le conseguenze. Ma allo stesso modo sono i lavoratori i primi a beneficiare di un aumento di produttività e di efficienza. Se riusciamo a incrementare l’utilizzo degli impianti, arrivando a una percentuale dell’80 per cento rispetto all’attuale 40 per cento, noi siamo pronti ad aumentare i salari portandoli al livello della Germania e della Francia. E questo senza ricorrere a ipotesi irrealistiche di replicare in Italia modelli di altri paesi europei, che hanno storia e caratteristiche totalmente diverse. Ho già detto che siamo anche pronti al passo successivo, alla partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda. Abbiamo l’esempio di Chrysler a testimoniarlo: nel 2010 l’azienda ha ottenuto un risultato operativo di oltre 760 milioni di dollari, grazie alle attività realizzate negli Stati Uniti e in Canada. Quindi, abbiamo riconosciuto lo sforzo fatto dai lavoratori e per ringraziarli del contributo che hanno dato ai risultati di Chrysler abbiamo deciso di distribuire a tutti i dipendenti un premio di produttività. Questo può succedere anche in Italia, ma è chiaro che, prima di parteciparli, gli utili dobbiamo farli. Oggi, però, l’unica area del mondo in cui l’insieme del sistema industriale e commerciale della Fiat è in perdita è proprio l’Italia. Lo è stato l’anno scorso e lo era anche nel 2009. E quando si perde non si possono distribuire premi sui risultati, perché l’utile della Fiat proviene dal resto del mondo, in particolare dal Brasile, e non dall’Italia. Gli stabilimenti su cui abbiamo deciso di avviare i progetti più ampi, per ragioni molto diverse tra loro, sono quelli di Pomigliano d’Arco e di Mirafiori, che potranno beneficiare nel complesso di circa 2 miliardi di investimenti in tre anni, dal 2010 al 2012.

 
Lo stabilimento di Pomigliano non poteva reggere così com’era. L’anno scorso l’utilizzo della manodopera è stato circa il 20 per cento della forza lavoro; le auto prodotte sono state meno di 20.000, rispetto a una capacità produttiva di 250.000 vetture l’anno.

 
Il progetto studiato per Mirafiori nasce da una riflessione sulla situazione attuale e, allo stesso tempo, da ciò che questo stabilimento rappresenta per la Fiat. Mirafiori sta attraversando un periodo difficile: il crollo dei mercati che ha fatto seguito alla crisi economica e alla fine degli ecoincentivi in molti Paesi europei ci costringe a fare spesso ricorso alla cassa integrazione.


Non potevamo e non volevamo rassegnarci a questa situazione. Mirafiori è il cuore industriale della Fiat, è uno dei simboli della storia dell’auto, è l’emblema della tradizione industriale di questo Paese e della cultura dell’auto, che è nata a Torino. Per questi motivi, il progetto che abbiamo pensato è qualcosa di unico ed è allo stesso tempo un riconoscimento del livello di tecnologia e di qualità del lavoro che Mirafiori può offrire. Il piano, come sapete, prevede la formazione di una joint venture tra Chrysler e Fiat per portare a Torino una nuova piattaforma dagli Stati Uniti, che servirà per produrre SUV di classe superiore sia per il marchio Jeep sia per l’Alfa Romeo. Si tratta dell’architettura più avanzata di cui disponiamo, che è nata come base per l’Alfa Romeo Giulietta e che si è poi evoluta ed è stata perfezionata in Chrysler. Oggi è diventata la piattaforma universale comune ai due gruppi da cui nasceranno tutte le future vetture dei segmenti C e D, automobili e SUV. Più della metà dei modelli che verranno prodotti a Mirafiori dalla nuova società saranno venduti al di fuori dell’Unione europea, specialmente in America. Sabato scorso abbiamo incontrato le istituzioni, a Palazzo Chigi, e abbiamo condiviso l’importanza determinante di un sistema di relazioni industriali costruttive, in grado di garantire la governabilità degli stabilimenti e il pieno utilizzo degli impianti. In quella sede, abbiamo ribadito che noi siamo disposti a mantenere gli impegni presi se tutti i soggetti coinvolti mantengono i propri, se c’è una chiara e ferma condivisione del piano da parte sindacale. Il governo, come ha dichiarato al termine dell’incontro, ha preso atto positivamente delle nostre intenzioni, dicendosi pronto a collaborare per realizzare le migliori condizioni di competitività, in modo che gli investimenti previsti in Italia siano il volano per raggiungere il più alto posizionamento rispetto ai concorrenti.


Finora abbiamo raggiunto a fatica due accordi, in un clima di diffidenza e di ostilità, in una campagna mediatica in cui si è usata la Fiat per perseguire altri obiettivi. Se consideriamo le alternative produttive che ha la nostra azienda e le politiche industriali che hanno adottato molti altri paesi concorrenti dell’Italia, il fatto che la Fiat abbia scelto di impegnarsi qui è un’anomalia. Non abbiamo avuto solo difficoltà a raggiungere nuovi accordi, ma stiamo incontrando problemi e ostacoli continuamente persino ad applicare gli accordi esistenti. Ora, infatti, stiamo analizzando la possibilità di replicare in parte questa iniziativa in Nord America per produrre veicoli destinati al mercato locale e al Sud America. Le trattative che abbiamo avuto con i sindacati locali non hanno mai posto limiti nell’utilizzo dello stabilimento; anzi, c’è sempre stata la massima disponibilità a lavorare su tre turni e sei giorni alla settimana. (…) Vorrei cogliere questa occasione per condividere con voi alcune riflessioni che hanno a che fare con alcune scelte che competono direttamente alla politica. La prima riguarda le possibili iniziative che verranno prese per la mobilità sostenibile. Ci sono diverse proposte di legge al vaglio delle Camere ed è anche previsto che il governo adotti provvedimenti per rispondere alla procedura di infrazione da parte dell’Unione europea per il superamento della soglia delle polveri sottili.


Sarebbe di grande aiuto per l’industria dell’auto se le iniziative delle diverse istituzioni confluissero in un unico strumento legislativo. Questo permetterebbe di rispondere agli obblighi comunitari, ma darebbe soprattutto un indirizzo chiaro, coordinato e stabile nel medio periodo alle politiche per la mobilità sostenibile. Per quanto riguarda il tipo di tecnologia su cui puntare, non credo che esista un’unica soluzione in grado di risolvere da sola i problemi dell’ambiente. Se si vuole davvero iniziare da subito a ridurre i livelli di emissioni, soprattutto nei centri urbani, è molto più utile sfruttare tecnologie in modo combinato. Penso sia a quelle tradizionali che a quelle alternative, come il metano, in cui l’Italia detiene un primato. Il metano, inoltre, è un eccezionale veicolo, nel medio termine, per la diffusione del biometano, un gas naturale di origine rinnovabile, che può aiutare il nostro paese a raggiungere i limiti stabiliti dall’Europa nell’ambito delle strategie di riduzione delle emissioni CO2 e di indipendenza dai combustibili fossili. (...)  Spero che il lungo intervento di questa mattina sia stato sufficiente a descrivervi qual è la misura del nostro contributo. Si chiama Fabbrica Italia e comporta un enorme impegno economico e industriale, nonché un’assunzione di responsabilità nel sanare gli handicap produttivi che per troppo tempo ci hanno fatto apparire inefficienti in confronto ad altre nostre realtà all’estero. È un contributo che abbiamo iniziato a mettere in pratica, fatto dopo fatto, da diversi mesi.

  

“L’Italia spesso è restia al cambiamento. Ci crediamo un’isola felice, in cui l’esistente deve essere salvaguardato a ogni costo”

   
Non abbiamo richieste da muovere alla politica. L’invito che posso lanciarvi è quello di usare la Fiat come testa di ponte e di sfruttare l’esperienza di questa multinazionale per aprire il nostro paese e tracciare il cammino di ripresa che non può che iniziare con la ripresa della produttività e della competitività. L’Italia si è dimostrata spesso un paese restio al cambiamento. Ci crediamo un’isola felice, in cui l’esistente deve essere salvaguardato a ogni costo. Il rischio di un simile atteggiamento è quello di proteggere l’inerzia. Tutti dobbiamo trovare il coraggio a ogni livello, le imprese, i sindacati e il mondo politico, di aggiornare il nostro modo di operare e di vedere il cambiamento come uno straordinario motore di progresso e come la più grande fonte di opportunità. Vista l’entità degli sforzi che la Fiat sta compiendo, credo che sia possibile moltiplicare gli effetti positivi, creando un’efficace politica industriale che favorisca e stimoli altre iniziative sul solco di quella che stiamo proponendo. Solo una decisione politica di sviluppo può creare le condizioni perché il tessuto industriale italiano si rafforzi e per attirare nuovi investimenti dall’estero.


Se l’impegno del mondo dell’impresa si unisce al varo di riforme strutturali, esso può far ritornare l’Italia a crescere a ritmi più elevati. Una crescita sostenuta è ciò di cui il nostro paese ha bisogno, sia per creare nuovi e qualificati posti di lavoro, sia per ripagare i debiti che abbiamo accumulato nei decenni passati. E’ ciò di cui abbiamo bisogno soprattutto per assicurare alle generazioni future un lavoro sicuro, un reddito più alto e un miglior tenore di vita. Grazie.