No alle ritorsioni contro Trump. La linea comune Meloni-Draghi

Luciano Capone

"Rispondere ai dazi con altri dazi danneggia solo noi stessi", è la posizione della premier e del suo predecessore. Uno studio di economisti spiega perché l'Europa deve evitare una guerra commerciale e come può limitare i danni del protezionismo americano

Come bisogna reagire ai dazi di Trump? Nel suo intervento al Senato, Giorgia Meloni ha detto che “bisogna scongiurare una guerra commerciale che non avvantaggerebbe nessuno, né gli Stati Uniti né l’Europa”, aggiungendo che “non è saggio cadere nella tentazione delle rappresaglie che diventano un circolo vizioso nel quale tutti perdono”. Per la presidente del Consiglio “non è un buon affare rispondere ai dazi con altri dazi” e, pertanto, ciò che l’Italia deve fare è cercare “soluzioni di buon senso tra Stati Uniti ed Europa, dettate più dalla logica che dall’istinto”. La logica non pare esattamente uno strumento utile nella dialettica con Donald Trump. Se quindi gli Stati Uniti non fanno passi indietro, la risposta dovrebbe essere quella di tenere botta. Non reagire.

In uno strano ribaltamento dei ruoli l’opposizione di sinistra, ad esempio con Matteo Renzi, ha chiesto al Senato alla premier di destra di essere “più sovranista” e di non “baciare la pantofola di Trump”. È probabile che la posizione conciliante della Meloni sia condizionata dal suo legame politico con Trump e dal tentativo di tenere insieme capre e cavoli, buoni rapporti sia a Bruxelles che a Washington. Cionondimeno la linea di Meloni ha perfettamente senso da un punto di vista economico.

D’altronde è lo stesso concetto che, sempre ieri, ha espresso Mario Draghi in audizione al Parlamento poco prima che parlasse la premier. In uno scenario di guerra commerciale “l’Europa è più vulnerabile di tutti gli altri – ha detto Draghi – perché noi traiamo il 50% del nostro prodotto dal commercio estero, gli Stati Uniti solo il 26%, la Cina il 32%. Quindi se gli altri mettono dei dazi e noi rispondiamo, alla fine creiamo anche un danno a noi stessi”. Le ritorsioni a colpi di dazi, diceva Milton Friedman, non sono una ricetta di politica internazionale sensata ma “una competizione nel masochismo e nel sadismo”. Ed essendo l’Europa molto più vulnerabile degli Stati Uniti, bisogna avere un elevato grado di sadomasochismo per lanciarsi in una guerra commerciale.

Cosa fare allora? A questa domanda risponde un paper appena pubblicato, chiesto dal Parlamento europeo, realizzato da un gruppo di economisti prevalentemente italiani (Bottazzi, Favero, Fernández-Fuertes, Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Monacelli) dal titolo "Euro Area Risks Amid US Protectionism”. L’indicazione generale è, in sostanza, cercare di assorbire il colpo dei dazi di Trump che, inevitabilmente, faranno male (sia agli Stati Uniti sia all’Europa). Ciò che le istituzioni europee non devono fare è peggiorare la situazione. Due sono i rischi principali che possono amplificare le conseguenze negative del protezionismo americano: una risposta eccessivamente restrittiva da parte della Bce, per contrastare preoccupazioni di inflazione importata; una reazione eccessiva da parte dell’Ue con restrizioni all’industria tecnologica Usa che frenerebbero l’innovazione in Europa e ritorsioni tariffarie che allargherebbero la guerra commerciale.

Se questo è cosa non fare, c’è qualcosa che si può fare? Secondo gli economisti, la Bce dovrebbe accompagnare il naturale deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, compensando così in parte l’effetto dei dazi attraverso il tasso di cambio; mentre la Commissione Ue e i governi dovrebbero “diversificare” i partner commerciali per ridurre la dipendenza dagli Usa.

In questo senso l’opposizione invece di chiedere a Meloni di introdurre altri dazi che danneggiano l’industria italiana, dovrebbe pretenderne l’abbattimento. Ad esempio approvando l’accordo commerciale Ue-Mercosur, su cui il governo Meloni ha una posizione inspiegabilmente contraria.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali