
Dazi, non un pesce d'aprile. Fermare Trump? Con le mani invisibili del mercato
Washington mira a riequilibrare l’industria interna con misure protezionistiche e pressione sugli alleati Nato. Nella prospettiva Maga i dazi sono una leva finanziaria e geopolitica. Una nuova sfida all’economia globale
Non sarà un pesce d’aprile. I dazi minacciati da Trump contro l’Europa e l’Italia a partire dal prossimo mese, nella concezione economica del progetto Maga, sono una misura strutturale per risolvere gli squilibri di fondo del modello Usa. Al di là del tira-e-molla negoziale che tiene futilmente impegnati i commentatori di mezzo mondo, è opportuno leggere le analisi delle eminenze grigie della finanza che lavorano alle spalle di Trump per provare a capire il disegno, cinico e insieme rigoroso, che costituisce la filigrana delle scelte apparentemente erratiche della nuova Amministrazione Usa. Un recente paper di Stephen Miran, già consigliere economico della prima Amministrazione Trump, propone una lucida chiave interpretativa della strategia americana in tema di commercio internazionale, di relazioni geopolitiche e militari e soprattutto di radicale revisione del ruolo del dollaro come moneta di riserva globale.
L’obiettivo generale dell’approccio Maga appare quello di correggere gli squilibri economici causati da un dollaro ritenuto sopravvalutato e di preservare – ma al tempo stesso ridefinire in chiave più vantaggiosa per Washington – il ruolo degli Stati Uniti come paese emittente di riserva valutaria globale e garante della sicurezza internazionale. Tale strategia si articola, da un lato, in nuove forme di protezionismo tariffario (con dazi crescenti e strutturali) e, dall’altro, in un utilizzo sempre più esplicito dello strumento militare-difensivo come leva negoziale verso i Paesi alleati. Vediamo, punto per punto, come questi aspetti siano strettamente interconnessi.
Dazi strutturali e crescenti: effetti inflattivi limitati e ridotti spazi per trattamenti di favore
Secondo l’impostazione degli economisti Maga, l’introduzione di nuovi dazi – in particolare contro Cina ed Europa – sarebbe non soltanto una misura “tattica”, bensì strutturale e progressiva. L’Amministrazione americana reputa infatti che l’impatto inflattivo di tali barriere risulti modesto o temporaneo, soprattutto se accompagnato da movimenti di compensazione valutaria (cioè dall’apprezzamento del dollaro). Nel periodo 2018-2019, l’aumento dei dazi effettivi verso la Cina non provocò un’accelerazione marcata dell’inflazione negli Stati Uniti e, anzi, consolidò un flusso di entrate fiscali verso il Tesoro Usa.
Questo implica che gli Stati Uniti considerano i dazi un vero e proprio “strumento fiscale” con cui proteggere specifici settori industriali (elevandone la competitività interna), generare entrate per l’erario (riducendo la pressione fiscale altrove, per esempio su imprese o famiglie) e piegare, se necessario con minacce brigantesche, paesi stranieri a più ampie concessioni, grazie all’ampiezza del mercato americano.
Di conseguenza, sono ridotti gli spazi per quei paesi di dimensioni medio-piccole che aspirano a una qualche eccezione di favore: la politica commerciale statunitense tende a mantenere le tariffe su un sentiero di crescita stabile, proprio perché l’impatto sull’inflazione domestica è ritenuto gestibile e transitorio. Ciò toglie peso a eventuali illusioni – che pure Giorgia Meloni si ostina a coltivare – di “special deals” con Washington: l’Amministrazione Usa vede nei dazi un caposaldo strutturale delle sue relazioni commerciali.
Leva difensiva e geopolitica: trasferimento dei costi di “poliziotto globale” ai partner Nato
Un secondo pilastro di questa strategia è l’intreccio tra politiche commerciali e cooperazione militare. La strategia Maga segnala come gli Stati Uniti colleghino in modo sempre più esplicito gli aspetti di sicurezza nazionale alla ridefinizione degli accordi economici. La Nato è l’esempio più evidente: gli alleati europei sono incoraggiati, se non costretti, ad aumentare la propria spesa militare, in modo da sostituire progressivamente il dispendio a carico del bilancio federale statunitense.
A livello economico, ciò risponde all’esigenza di alleggerire il crescente onere che ricade sul contribuente americano nell’esercizio del ruolo di potenza egemone (ruolo che comporta, tra le altre cose, lo schieramento di basi all’estero e la fornitura di assetti militari avanzati). I paesi che decidono di non compartecipare adeguatamente a tale sforzo potrebbero vedere peggiorati i rapporti commerciali con gli Usa, incorrendo in dazi più elevati o in minori benefici in termini di investimenti/forniture militari.
In sintesi, l’Amministrazione considera la difesa un formidabile strumento di leverage negoziale: se gli alleati intendono godere della copertura di sicurezza americana, dovranno sostenere costi maggiori per la propria difesa e concedere reciprocità commerciale, in una logica di burden sharing.
Ruolo del dollaro riserva globale: squilibrio tra Wall Street e Main Street
Un altro tema centrale è la convinzione che la condizione di valuta di riserva mondiale abbia nel tempo rafforzato in modo eccessivo il dollaro, favorendo sì la finanza di Wall Street (attraverso l’afflusso di capitali esteri nei Treasury e negli asset americani) ma penalizzando la competitività del settore manifatturiero. Tale dinamica sarebbe riconducibile a un cosiddetto “dilemma di Triffin”: il paese emittente di riserva deve necessariamente mantenere ampi deficit (commerciali o fiscali) per alimentare il fabbisogno di dollari e titoli di stato nel mondo.
L’idea che la condizione di valuta di riserva mondiale abbia nel tempo rafforzato in modo eccessivo il dollaro
Ciò ha finora portato benefici per Wall Street – la domanda di asset denominati in dollari garantisce un flusso di capitali continuo negli Stati Uniti, sostenendo il settore finanziario e la liquidità dei mercati, ma ha tuttavia avuto un effetto negativo su Main Street: l’industria americana risulta meno competitiva, perché un dollaro sopravvalutato rende più costose le esportazioni e più convenienti le importazioni, riducendo occupazione e investimenti in alcuni segmenti produttivi.
Nella prospettiva Maga, per riequilibrare tale squilibrio gli Stati Uniti devono indebolire in modo duraturo il dollaro e rendere meno appetibile l’accumulo di riserve in valuta americana a fini di carry trade o di protezione. In tal senso, i dazi (se accompagnati dal rafforzamento del dollaro nel breve) possono essere seguiti – in una fase successiva – da misure specifiche di politiche monetarie (pressioni politiche tese a ridurre l’autonomia della Fed, accompagnate da tagli fiscali interni e da una maggiore spesa pubblica in ricerca e sviluppo su tecnologie avanzate per supportare un amento della produttività) allo scopo di rilanciare il comparto manifatturiero, specie nei settori dove la Cina detiene ormai posizioni di quasi-monopolio.
Re-industrializzazione forzata: incentivi fiscali, sussidi e tecnologie avanzate
Il quarto pilastro consiste in un programma massiccio di reindustrializzazione del tessuto produttivo americano. Le possibili strategie contemplano riduzioni fiscali mirate per le aziende manifatturiere che riportino sul suolo americano la produzione ora delocalizzata, sussidi alle imprese nazionali che innovino in comparti strategici (dall’energia all’AI, dalla robotica alle tecnologie difensive) e infine applicazione congiunta di barriere tariffarie, così da compensare i differenziali di costo del lavoro con alcune economie emergenti.
Un approccio dello stato più interventista, in collaborazione con i nuovi oligopolisti delle tecnologie digitali
L’idea di fondo è favorire il reshoring di processi industriali critici e incoraggiare investimenti nei settori più avanzati. A livello macro, questo comporta un ampliamento del ruolo dello stato nel sostenere la competitività, assumendo un approccio più interventista, in collaborazione con i nuovi oligopolisti delle tecnologie digitali, rispetto alla tradizionale impostazione favorevole alla concorrenza e all’iniziativa privata. Allo stesso tempo, l’afflusso di capitali – storicamente rivolto a Wall Street – dovrebbe essere dirottato gradualmente su progetti manifatturieri concreti di “Main Street”, grazie anche alla prospettiva di un dollaro meno forte e a costi di produzione resi più competitivi.
Il ruolo dell’Italia in uno scenario di integrazione (o isolamento) europeo
All’interno di questa cornice, l’Italia – se si muove isolatamente – vede ridotti i propri margini di manovra e rischia di perdere ulteriormente competitività. La dimensione ridotta del mercato interno e l’assenza di un proprio peso politico-diplomatico sufficiente a trattare condizioni di favore con Washington espongono l’Italia al rischio di subire passivamente i dazi e le limitazioni commerciali statunitensi. Senza un’azione coordinata nell’Unione Europea, la capacità di reazione del nostro paese risulta minima, aggravando eventuali squilibri della bilancia commerciale e imponendo un costo maggiore alle filiere produttive di medio-alta tecnologia orientate all’export.
D’altro canto, un’Europa più coesa – nella definizione sia di una politica industriale comune sia di un approccio condiviso alla sicurezza – potrebbe controbilanciare con maggior forza le pressioni statunitensi, negoziando più efficacemente sul fronte commerciale e partecipando in modo diverso alle dinamiche di “burden sharing” sulla difesa. La nuova configurazione delle relazioni geopolitiche e l’orientamento protezionistico degli Stati Uniti rendono sempre più necessaria una risposta unitaria europea, pena l’ulteriore marginalizzazione economica e politica di singoli paesi come l’Italia.
Chi può ostacolare il progetto neo-mercantilista della macchina Maga? Non certo la piaggeria di piccoli governanti di ancor più deboli governi, quanto l’unico vero e potente attore che Trump non può davvero minacciare né controllare: i mercati finanziari globali. Il tallone d’Achille di Donald è infatti l’enorme massa di debito pubblico che gli Stati Uniti hanno accumulato. Gli Usa hanno già superato la soglia dei 36 mila miliardi di dollari di debito federale, un fardello che nel 2025 comporterà una spesa per interessi intorno ai 1.000 miliardi di dollari l’anno, con proiezioni che ne stimano quasi il raddoppio entro il prossimo decennio. I mercati finanziari internazionali, con la loro spiccata attenzione alle politiche fiscali e monetarie, rappresentano dunque l’unico vero “antagonista” in grado di inceppare il disegno economico di Washington: qualsiasi ulteriore irrigidimento delle condizioni finanziarie o impennata dei tassi richiesti dagli investitori farebbe lievitare i costi di servizio del debito oltre livelli sostenibili, soffocando di fatto il nuovo protezionismo e rendendo insostenibile la posizione fiscale del Paese.
In uno scenario simile, la capacità degli Stati Uniti di promuovere una politica di dazi progressivi, di rafforzare il proprio potere negoziale in sede di difesa e di avviare una reindustrializzazione su larga scala si scontrerebbe frontalmente con la necessità di non perdere la fiducia dei capitali internazionali. Per sostenere un debito così ingente, la Casa Bianca non potrà permettersi di irritare eccessivamente gli investitori, pena un rialzo repentino dei rendimenti obbligazionari e un’ondata di vendite sui Treasury. Di conseguenza, quello che in apparenza si configura come un lucido e cinico mix di protezionismo, leverage militare e controllo valutario potrebbe restare pesantemente vincolato dal “giudizio” dei mercati, tradizionalmente inclini a punire incertezze fiscali o riforme radicali che minacciano la stabilità finanziaria di lungo periodo. A fermare Trump serviranno a ben poco le pacche sulle spalle, e molto di più le mani invisibili del mercato.