Ursula von der Leyen, allora ministro della Difesa tedesco, con il suo omologo francese Florence Parly nel 2018, davanti all’Eurodrone (Getty) 

Non c'è solo il Libro Bianco. Strategie, industrie e capitali dell'Europa in riarmo

Il Vecchio Continente diviso fra riarmisti titubanti e pacifisti confusi. Tecnologia e soldati ci sono, ma senza una pianificazione unitaria restiamo nani geopolitici

L’Europa è armata anche se finora ha messo dei fiori nei propri cannoni. Possiede 515 testate nucleari (290 francesi e 225 britanniche) in grado di colpire fino a 8 mila chilometri di distanza (Mosca ne dista 5 mila). Nonché satelliti, missili, droni, bombardieri e aerei da combattimento, portaerei, fregate, sottomarini, carri armati, cannoni, mine e uomini ben preparati. I piloti hanno più ore di volo (oltre il doppio) e migliore addestramento di quelli russi, in un duello aereo sarebbero vincenti: non siamo più ai tempi del Barone rosso e siamo ben oltre quelli di “Top Gun”, ma è sempre l’uomo a guidare la macchina. Senza gli 84 mila militari americani stanziati nel Vecchio Continente, i paesi europei, compresa la Gran Bretagna, hanno a disposizione circa un milione e 400 mila soldati, più di quelli russi, anche se non tutti sono utilizzabili rapidamente. Di fronte a una invasione, l’Europa è in grado di respingerla senza l’intervento diretto degli Stati Uniti? Sulla carta sì, ma per sconfiggere la Russia ha bisogno di quattro ingredienti che mancano: un comando unificato, un sistema esteso ed efficace di informazione a tutti i livelli, una difesa antimissile tipo l’Iron dome israeliano, una filiera industriale che combini concorrenza e convergenza. Il libro bianco presentato da Ursula von der Leyen è pieno di buone intenzioni, ma resta un bicchiere mezzo vuoto. Anche gli 800 miliardi di euro da spendere sembrano caciocavalli appesi. Il debito comune rilanciato da Mario Draghi è un flatus vocis. Quindi, della Nato non possiamo fare a meno.

    

Gli ingredienti che mancano: un comando unificato, un sistema di informazione, una difesa antimissile, una filiera industriale

  
Non è vero che c’è tempo, tutto il tempo necessario a formare una vera difesa europea; al contrario servono risposte rapide, anche per questo il dibattito italiano sembra del tutto surreale. Un dibattito medievale, come quello sul sesso degli angeli. ReArm non piace né a destra né a sinistra, ma di riarmo di tratta, il nome questa volta non nasconde la cosa. Circolano già scenari tanto inquietanti quanto realistici. Una sconfitta in Ucraina o una finta pace combinata tra Trump e Putin possono innescare una reazione a catena, ha scritto sull’ultimo numero di “Foreign Affairs” Mike Kimmage, direttore del Kennan Institute al Woodrow Wilson Center, uno dei più importanti pensatoi di politica internazionale. Il war game è già chiaro. La Polonia e gli stati baltici, sentendosi minacciati direttamente, chiedono l’attivazione dell’articolo 5 della Nato. Se gli Usa lo rifiutano i paesi sulla linea del fronte sono costretti a intervenire militarmente. I governi europei che hanno sostenuto l’Ucraina non possono restar fuori, a cominciare dal Regno Unito che ha firmato un patto di assistenza valido per cent’anni. A quel punto, o Trump perde la faccia e gli Usa l’onore, oppure il presidente americano è costretto a tornare sui suoi passi. Le promesse di Putin sono scritte nel fango delle steppe. Subito dopo il patto di Monaco, Adolf Hitler giurò che a lui interessava solo proteggere i tedeschi dei Sudeti e mai e poi mai avrebbe invaso la Cecoslovacchia. Francia e Inghilterra gli credettero; sappiamo bene com’è andata a finire. “Così come Putin non può permettersi di perdere la guerra in Ucraina, Trump non può permettersi di perdere l’Europa”, sostiene Kimmage. Speriamo che abbia ragione. Mad Vlad gioca con The Donald come il gatto con il topo e la posta va al di là dell’Ucraina.

  
L’Europa senza l’America?

Il generale Luca Goretti capo di stato maggiore dell’aeronautica la dice grossa, ma dice il vero: “Se gli Stati Uniti spengono la luce, operiamo lo stesso”. L’Italia insieme alla Gran Bretagna e al Giappone sta lavorando alla costruzione dell’aereo da combattimento di sesta generazione, quello che supera e surclassa l’F-35 americano e il russo Sukhoi Su-57 o T-50. Non si tratta solo di ipotesi o giochi da scuola di guerra. Christophe Gomart, ex capo dell’intelligence militare francese ed eurodeputato del Partito Popolare Europeo ha lanciato un allarme molto concreto: “Se gli Usa attaccassero la Groenlandia, nessun paese europeo potrebbe far decollare i suoi F-35 per difenderla, perché questi jet sono dotati di un sistema di blocco che impedirebbe il volo se il piano di volo non fosse approvato dal Pentagono”. Gli alleati con Donald Trump si sentono sudditi e vogliono emanciparsi. La Francia sta lavorando insieme a Germania e Spagna al super velivolo del prossimo futuro. Il generale Goretti e l’ex generale Gomart hanno messo in luce i dilemmi e i progetti della difesa nell’era dell’America First. E rivelano anche l’altra faccia della luna: di qua due aerei tutto sommato simili, uno anglo-italo-giapponese e uno francese, ciascuno dei quali costa miliardi di euro che ricadono sui contribuenti di quattro bilanci statali; di là una sola macchina volante, un solo bilancio e i contribuenti più ricchi del mondo. Ecco il filo che ci conduce nel nostro tortuoso cammino nel labirinto della guerra guerreggiata che oggi non è più un war game. Una guerra oscura anche perché gli amici di un tempo possono diventare persino i nuovi nemici. 

 
 L’assunto di Elly Schlein (sì alla difesa comune, no al riarmo nazionale) è senza senso finché non si saranno (se mai ci saranno) gli Stati Uniti d’Europa. Un esercito del Vecchio Continente, senza americani, non può che essere composto dai contingenti nazionali, esattamente come avviene per l’Alleanza atlantica che non ha eserciti, ma 18 mila ufficiali a ogni livello e di tutti i paesi membri; quel che li unisce è una chiara catena di comando e prima ancora la definizione del nemico comune, dell’obiettivo da raggiungere, della strategia da impiegare, insomma la “politica con altri mezzi” del generale Carl von Clausewitz ai cui insegnamenti russi e ucraini, entrambi pronipoti di Lenin, si sono abbeverati, gli uni con la loro dispendiosa guerra offensiva e gli altri con una efficace guerra difensiva.

 
La nuova dottrina strategica

L’invasione dell’Ucraina è stata uno choc anche per le alte sfere militari. Dopo la fine della Guerra fredda, un combattimento sul terreno con uomini mandati al macello, carri armati, fucili, imboscate, assedi, bombardamenti a tappeto, distruzioni di città, insomma, come nella Seconda guerra mondiale, era stato cancellato da ogni manuale del buon militare. Prendiamo i carri armati d’assalto: si era convinti che non ce ne fosse più bisogno e si è smesso di produrli almeno fino a quando l’Anschluss russo della Crimea ha risvegliato dal lungo sonno le élite militari mentre i politici hanno continuato a dormire e a illudere i loro elettori. Oggi Donald Trump sbeffeggia l’Europa e la Nato perché non ha forze armate di natura offensiva. Ma chi ha voluto ciò se non gli Stati Uniti? Eppure The Donald ha persino frequentato una sorta di accademia, sia pur un collegio non affiliato alle forze armate; solo che già allora aveva altri grilli per la testa, evitò il Vietnam e si fece riformare per una “spina calcaneare”. 


Chi ha fatto il militare anche a basso livello (come chi scrive), è stato indottrinato con un principio molto semplice: in caso di attacco sovietico (allora l’Urss era ancora aggressiva e si preparava a invadere l’Afghanistan) dovete resistere per poche ore finché non parte la controffensiva della Nato e non si armano le testate nascoste nel ventre delle Alpi. L’Italia paese vinto non poteva far altro. Ma ciò era vero anche per la Germania occidentale rimasta persino più scoperta perché divisa dal Patto di Varsavia con una vera cortina di ferro. Ebbene tutto questo non vale più, così gli strateghi con greche e stellette si sono messi a riscrivere i manuali e anche gli americani hanno dovuto rivedere la loro dottrina basata sui conflitti asimmetrici. In fondo, dopo la sconfitta in Vietnam hanno dovuto gonfiare i muscoli solo con Grenada (un isolotto dei Caraibi), il Kosovo, l’Afghanistan e l’Iraq (due volte), paesi che non erano certo potenze militari e nonostante ciò lo zio Sam ha incassato sonore sconfitte. L’11 settembre 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle (riuscito) e alla Casa Bianca (fallito) gli Stati Uniti hanno scoperto di non essere né invulnerabili né al sicuro tra due grandi oceani (checché ne dica Trump), ma il loro nemico era oscuro, nascosto nella sabbia del deserto o nella Casba, non stava più a Mosca e non ancora a Pechino. Dunque, l’arte della guerra va rivista, un po’ guardando alla storia, un po’ immaginando il futuro con realismo e senza illusioni. Anche chi vuole la pace universale cosmopolita, deve fare un bagno di realtà. Da dove si comincia? Da quel che c’è.

 
Un comando molti eserciti

L’Unione europea non è certo avara di documenti né di sigle e acronimi. La Esdp (la politica europea di difesa e sicurezza) nasce con una dichiarazione solenne nel 2002 e via via genera la Bussola strategica che si incrocia con il Concetto strategico della Nato, entrambi del 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina, “la più grave minaccia alla sicurezza Euro-Atlantica delle ultime decadi”. La Ue ha i suoi apparati e vertici militari, ma la dottrina vuole che la difesa europea sia complementare a quella dell’Alleanza atlantica. Madeleine Albright allora segretario di stato di Bill Clinton (siamo tra il 1997 e il 2001) tirò fuori il principio delle tre D. La prima è Discriminazione nel senso che bisogna evitare qualsiasi comportamento slegato agli altri alleati da parte di uno solo o di un gruppo di paesi. La seconda D sta per Duplicazione di comandi e strutture. La terza, Disaccoppiamento, riguarda l’autonomia strategica di un esercito europeo. E’ questo il nodo oggi da sciogliere per difendere l’Ucraina e l’intera Europa, visto che le priorità strategiche non coincidono più da quando Trump è alla Casa Bianca.

   

Nel 2002 nasce la Politica europea di difesa e sicurezza (Esdp). Poi la Bussola strategica che si incrocia con il Concetto strategico della Nato

  
Non è nemmeno vero che per andare avanti la Ue abbia bisogno di un voto unanime. Il trattato di Lisbona prevede le cooperazioni rafforzate. Esiste già del resto un’unione a cerchi concentrici, e l’area euro può essere affiancata a un’area di difesa, ancor più aperta di quella monetaria; nove paesi si dicono pronti, a cominciare da Francia, Germania, Olanda, i baltici e gli scandinavi. Il capo di stato maggiore italiano, generale Luciano Portolano è molto esplicito: “L’’Europa, intesa come l’insieme dei paesi raccolti sotto la bandiera dell’Unione, deve essere in grado di difendersi autonomamente e affrontare le minacce che possono emergere alle sue porte: una responsabilità che non può più essere delegata ad altri”. Oggi il vertice della Nato è composto da un italiano, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che presiede il comitato militare, un americano come sempre comandante supremo, il generale Christopher Cavoli, e un francese come suo vice, l’ammiraglio Pierre Vandier. Nel caso di un comando europeo bisognerà prevedere una rotazione come succede ai vertici della Ue. Non mancano divergenze e tensioni tra ufficiali con tante stellette, racconta chi ha lavorato nei comandi della Nato, ma le diatribe sono sempre state più politiche militari. 

  

Un carro armato esposto dal produttore tedesco di armi Rheinmetall all’ILA Berlin Air Show 2024 (Ansa) 
   
Gli eserciti dei paesi europei hanno già condotto proprie operazioni, da soli o insieme ad altri, in particolare in Africa, in Medio Oriente o nei Balcani (si pensi Francia e Italia in Mali), e le forze armate dei diversi stati non sono affatto impreparate. Nemmeno quelle italiane. Anzi, ci sono ben 40 missioni militari italiane tra Nato e Onu in varie parti del mondo, con un impiego massimo di circa 12 mila soldati con navi, aerei e ogni altro mezzo. I cinque big della difesa europea (il gruppo E5 come si chiama nel gergo di Bruxelles), sono Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Polonia. Secondo Global firepower, sito indipendente che analizza le statistiche di ben 145 paesi, l’Italia è la seconda potenza militare dopo il Regno Unito, prima della Francia e al decimo posto nel mondo. Per formare la classifica vengono usati ben 50 criteri diversi, tra i quali il prodotto lordo, il livello tecnologico-scientifico, la capacità industriale nel suo complesso, quindi non solo la produzione di armamenti o i soldati in servizio. 

 
Il ritorno dei coscritti

L’ipotesi di una guerra del Baltico in seguito a un’invasione russa richiederebbe 1.400 carri armati, duemila veicoli da combattimento di fanteria, 700 cannoni, un milione di proiettili da 155 millimetri per i primi tre mesi, duemila droni a lungo raggio ogni giorno; più di quanto possano mettere insieme le forze terrestri francesi, britanniche, italiane e tedesche. Servirebbero altri 300 mila soldati, secondo il rapporto redatto dal think tank Bruegel e dall’istituto di Kiehl, soprattutto se Washington ritira i suoi. Il co-autore del rapporto, Alexandr Burilkov, spiega a Euronews che questi sarebbero parzialmente reclutati con la “coscrizione obbligatoria e sostenuti da riserve ampie e ben addestrate”, simili alla Guardia nazionale americana.

   

L’ipotesi di una guerra del Baltico richiederebbe più di quanto possano mettere insieme le forze terrestri francesi, britanniche, italiane e tedesche

  

Non sarà facile, l’invecchiamento della popolazione ha invecchiato anche gli eserciti e tra i giovani la leva non attira. La Germania lamenta problemi enormi, l’Italia non è da meno. Tutti questi discorsi a freddo possono cambiare nel momento caldo del pericolo, l’Ucraina insegna. Le illusioni di una pace universale o quasi, nel “mondo piatto” post guerra fredda, hanno accelerato il parziale smantellamento degli eserciti e la fine della leva obbligatoria (in Italia nel 2004). Le cose vanno meglio nei paesi scandinavi dove esiste un addestramento per lo più permanente e là dove l’invasione russa è un pericolo costante come in Finlandia, Polonia, Repubblica ceca, i paesi che hanno gli eserciti più numerosi soprattutto in rapporto alla popolazione. L’Istituto internazionale di studi strategici basato a Londra sottolinea che le forze armate europee sono sotto stress. Il gap di personale a tutti i livelli rischia di impedire la normale amministrazione, figuriamoci l’emergenza. Gli eserciti si stanno preparando, però in molti casi sarà necessario far tornare una coscrizione imposta per legge. E non è solo questione di quantità, ma di preparazione e di morale, i fattori umani sempre fondamentali e oggi più che mai. 

 
Burro e cannoni

Un aumento della capacità difensiva è destinato ad assorbire enormi risorse pubbliche e private. Un cambiamento è già avvenuto negli ultimi due anni, nel 2024 la spesa da parte dei paesi europei della Nato è cresciuta e oggi è superiore del 50 per cento a quella del 2014 quando la Russia ha annesso la Crimea ed è suonato il campanello che gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno voluto ascoltare. Oggi il Vecchio Continente è diventato, secondo l’Istituto londinese, la locomotiva nella crescita degli stanziamenti per la difesa. Chi paga? Il debito è un problema serio, lo è anche per gli Stati Uniti (il loro elevato indebitamento verso il resto del mondo era una conseguenza del loro ruolo egemonico, oggi è un tallone d’Achille), figuriamoci per paesi come l’Italia. 

  

Un cambiamento è già avvenuto, la spesa da parte dei paesi europei della Nato è oggi superiore del 50 per cento a quella del 2014

  
Si potrebbe dire meglio il debito che il tallone russo. Ogni guerra è stata condotta a debito, o si pensa che non dobbiamo batterci per difendere i nostri valori oppure meglio spremersi le meningi per capire come pagare per ottenere la pace. Intanto non si tratta solo di spendere, la difesa è un volano economico e industriale, può imprimere una spinta alla produzione stagnante e dare una mano a settori in crisi come l’auto. In Germania si parla di convertire per la difesa un impianto della Volkswagen. Lo stesso può accadere in Italia con le fabbriche Stellantis che non potranno essere saturate nemmeno con il ritorno del motore  a scoppio. John Elkann, nella sua audizione in Parlamento, lo ha escluso, ma non si mai. I fondi allocati nella ricerca e sviluppo sono oggi un terzo delle spese totali per la difesa, dieci anni fa erano il 15 per cento. Tuttavia stiamo solo colmando il buco aperto dai tagli realizzati a partire dal 2009. Dunque bisogna fare molto di più. Ci sono paesi come la Germania che possono spendere senza creare inflazione e senza intaccare lo stato sociale. Ma non bastano i bilanci dei singoli paesi né lo scarno bilancio Ue. Mario Draghi ha rilanciato la proposta di emettere titoli europei da collocare su un mercato finanziario che resta enorme e alla ricerca di impieghi profittevoli. L’Ucraina è un drammatico banco di prova anche sul piano finanziario. L’Ue, insieme a Regno Unito, Norvegia Svizzera, Islanda, ha fornito 134 miliardi di euro, più degli Usa (119 miliardi di euro), 49 miliardi sono andati alle forze armate ucraine (ma gli impegni presi arrivano a 72,2 miliardi); Kaja Kallas responsabile esteri e sicurezza della Ue ne ha chiesti altri 40 ai paesi “volenterosi”. 

 
Il nuovo complesso militar-industriale

L’industria europea della difesa non è piccola né arretrata, è soprattutto frammentata e divisa per linee nazionali. Nella classifica dei principali gruppi è in testa BAE Systems (ex British aerospace) al sesto posto mondiale dopo le Big Five americane (Lockheed Martin, RTX, Northrop, Boeing, General Dynamics) con un fatturato che è circa la metà della Lockheed. Poi arrivano tre aziende cinesi. Leonardo, tredicesima al mondo, guida il pattuglione della Ue, seguita da Airbus (franco-tedesca-spagnola), Thales (francese), Rheinmetall (tedesca), Dassault (francese), Naval e Safran (anch’esse francesi), Saab (svedese), KNDS (olandese) e Fincantieri. L’Italia ha una posizione chiave anche perché Leonardo ha stretto joint venture e collaborazioni che arrivano fino agli Stati Uniti dove possiede la Drs (tecnologie dell’informazione). Per formare un sistema continentale, ha ricordato Draghi, occorre favorire “le sinergie industriali concentrando gli sviluppi su piattaforme militari comuni (aerei, navi, mezzi terrestri, satelliti)”. 

 

Nella classifica dei principali gruppi è in testa BAE Systems (ex British aerospace) al sesto posto mondiale dopo le Big Five americane

    
I paesi europei restano ancora troppo dipendenti dagli Stati Uniti per importanti aspetti della loro capacità militare: l’artiglieria antiaerea, i razzi, la copertura aerea, l’informazione. Anche se dal 2022 hanno investito molto per colmare il divario: il 52% di questi sistemi di combattimento oggi è fornito da imprese europee, solo il 34% da quelle americane che si sono concentrate in veicoli, missili terra-aria a lungo raggio, intelligence, sorveglianza, mezzi aerei e missili teleguidati. Gli inglesi parlano persino di escludere gli americani da Five eyes, il sistema di sorveglianza occidentale che comprende anche Australia, Canada e Nuova Zelanda, ma le ritorsioni hanno una consistenza puramente emotiva. Al contrario bisogna garantire l’accesso europeo su una base di parità; nonostante Trump, gli Usa sono “compagni che sbagliano”. Draghi ha ricordato che tra il 2020 e il 2024, gli Stati Uniti hanno fornito due terzi dei sistemi di difesa importati dagli stati europei aderenti alla Nato (l’Italia ha una quota del 30%). Droni, ma anche intelligenza artificiale, elaborazione dei dati, guerra elettronica, spazio e satelliti: i gruppi del Vecchio Continente ci sono, ma inseguono. La questione più delicata riguarda il deterrente nucleare. Emmanuel Macron si è dimostrato favorevole a mettere a disposizione la force de frappe, gli inglesi si sono riavvicinati alla Ue, ma restano fuori. Anche qui c’è bisogno di unirsi senza ancora sapere come.

 
Cielo, terra e mare

Molta strada dovrà fare l’Europa per garantire la propria sicurezza. Esistono più sistemi satellitari, innanzitutto quelli di Eutelsat (che ha acquisito OneWeb nel 2022) e di SES che sta acquistando Intelsat. Sono per lo più basati su satelliti geo stazionari che sono affidabili, ma viaggiano a 36 mila chilometri e rispetto a quelli a bassa orbita (400 chilometri) come Starlink, hanno una latenza maggiore: il segnale arriva dopo un terzo di secondo che in combattimento può essere una eternità. L’Ue ha lanciato il programma IRIS 2 (Iris al quadrato) che sarà operativo solo verso il 2030. Tuttavia può  contare su diverse imprese competitive: oltre Eutelsat e SES, Airbus Defence & Space, Thales Alenia Space, Telespazio, Hispasat e Hisdesat. Pur disponendo delle tecnologie necessarie, come i Samp T franco-italiani, non inferiori ai Patriot, l’Europa non ha copertura adeguata rispetto a attacchi missilistici. Abbiamo già detto dell’insensata competizione per il cacciabombardiere di sesta generazione. Oggi l’F35 (americano anche se industrie europee ne producono circa un terzo) è l’aereo più efficace, superiore al francese Rafale e all’Eurofighter (anglo-italo-tedesco). La Russia ha sempre puntato molto sulla guerra sottomarina dove un tempo primeggiava la Germania, l’Europa ha eccellenze come i Vanguard britannici armati di missili balistici i francesi Le Triomphant, ma solo 4 sommergibili nucleari contro gli 11 russi. Fincantieri dopo la lunga cooperazione con la Germania, è impegnata nella costruzione del quarto sottomarino di nuova generazione. La vera specialità italiana (condivisa con la Francia) è nelle fregate multimissione vere protagoniste dei combattimenti in superficie. E’ un esempio di cooperazione virtuosa come nei missili, nella produzione di chip con STM, nell’elettronica dove Leonardo è nel triangolo con la britannica Bae e la francese Thales. Il gruppo italiano ha stretto un accordo con Rheinmetall per nuovi veicoli corazzati destinati all’esercito italiano. La Germania è tornata a produrre i Panzer, macchine da guerra che l’avevano resa famosa e sembravano ormai inutili. Corsi e ricorsi, rileggiamo Giambattista Vico, compresa la sua intuizione anticipatrice sul ruolo della tecnica e della conoscenza. 

 
A questo punto non resta che rovesciare la questione: può vincere l’Europa senza l’America? Ovviamente no. Ma può vincere l’America senza l’Europa, anzi può fare a meno del Vecchio continente al quale ha venduto non solo i propri prodotti e il proprio debito, ma anche la propria cultura? E’ una domanda retorica per noi a risposta negativa, ma lasciamola aperta ai lettori attratti dal fascino di una nuova Yalta. Allora, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt tornò a Washington dicendo che era stato un successo, ma il vero vincitore fu Stalin. La storia può ripetersi, e non come farsa.