
Angelo Gaja (Olycom)
L'intelligenza del vino
A tu per tu con Angelo Gaja, il principe della zolla
Intervista, a Barbaresco, al Mozart del vino. I dazi di Trump, la criminalizzazione del bere, la filosofia delle Langhe, la politica che non vede la provincia operosa, l’esaltazione del “saper fare” e del “far sapere” d’una famiglia di nobili contadini
“I prodotti italiani sono amatissimi, e ce ne vuole prima che il consumatore americano smetta di comprarli per passare ai vini cileni o a quelli australiani”. Per uno come Angelo Gaja, cresciuto con il motto di famiglia “fare, saper fare, saper far fare, far sapere”, i dazi di Donald Trump sul vino non sono un nodo che strappa il respiro, ma un’eventualità da tenere in conto nell’eterno possibilismo della vita. Dalle vigne delle Langhe piemontesi a quelle toscane di Montalcino e Bolgheri, questo ottantacinquenne magro e ben conservato coltiva l’arte di chi sa unire la passione per il vino alle esigenze del mercato, conciliando tradizione e innovazione, impresa e cultura, creando etichette leggendarie: Sorì San Lorenzo, Costa Russi, Darmagi, Sperss, Ca’ Marcanda, Promis. Nato ad Alba il 7 marzo 1940, guida un’azienda fondata dal nonno nel 1859 e in Piemonte produce non più di trecentomila bottiglie. Quando non è convinto della raccolta, salta l’annata, prende il vino e lo vende sfuso. “Le bottiglie che produciamo trovano la loro destinazione perfetta nella ristorazione, nel consumo a tavola, nel piacere di stare assieme e dividere le bottiglie col pasto”, mi dice. Produce pochissimo rispetto ai grandi industriali del vino di massa, come Zonin, ma la sua è un’inezia di una qualità che sfida i grandi vini francesi: solo trecentomila bottiglie, appunto, ma di pura audacia, introvabili nella grande distribuzione, e che vengono esportate per l’80 per cento (“un 20-22 per cento negli Stati Uniti, a seconda degli anni, poi Germania, Inghilterra, Giappone…”). E allora, come ben si capisce, la questione dei dazi gli interessa. Altroché. Ma Gaja la affronta alla piemontese. “Non sono così pessimista”, dice. Un imprenditore deve affrontare i problemi con la sua capacità, pensa lui. Senza strepiti, senza piagnistei, senza aspettarsi che qualcuno arrivi a salvarti. Questa è la filosofia.
Seduto nel cortile del suo castello a Barbaresco, un luogo che respira storia e pragmatismo insieme, poggiando letteralmente i piedi sul soffitto d’una cantina moderna, grandiosa e tecnologica che sta alle cantine di campagna come la Ferrari sta alla Ford dei primi del Novecento, lo dice con quella calma che non è rassegnazione, ma consapevolezza. “E’ chiaro che l’imposizione di un dazio non ci favorisce, però prima di fare calcoli e capire che cosa perderemo, aspettiamo a dare giudizi. Tenuto conto che comunque, laddove abbiamo abituato il consumatore americano a bere i nostri vini, non è che questo qua ci volti le spalle dal mattino alla sera”. E così Gaja ricorda che Donald Trump, in fondo, un favore all’Italia l’ha già fatto. “Dobbiamo riconoscerlo”, dice con un tono che intreccia analisi e ironia. “Nel 2020 e nei primi tre mesi del 2021, Trump aveva imposto una soprattassa del 25 per cento all’ingresso negli Stati Uniti dei vini tedeschi, francesi, spagnoli per punire il consorzio Airbus”, racconta. “E zero all’Italia”. Zero. “In pratica è stato un nostro benefattore”, dice. “Più di così non puoi pretendere. Abbiamo avuto un culo della Madonna in questi anni!”. E ride, Angelo Gaja. Ride di una risata contagiosa. Cos’è in fondo l’ironia, se non la capacità di tenere insieme verità opposte in uno stesso discorso, sopportandone la contraddizione? E’ una forma d’intelligenza. “I dazi, se arrivano possono essere un danno”, dice. “Ma sono anche stati un vantaggio”, aggiunge. Ecco le verità opposte. “L’Italia grazie a Trump ha guadagnato spazi incredibili negli anni appena trascorsi”. Sicché ora, se arrivasse una sovra tassazione anche sui vini italiani, Gaja non si scompone: “Davvero smetteranno di comprarci perché costiamo di più? Siamo sicuri?”.
Vita, vite e viti di Angelo Gaja. “Salvini sbaglia se pensa che con Trump possa negoziare l’Italia da sola. L’Italia è troppo piccola rispetto all’America, alla Cina o all’India. Per questo sono un europeista convinto”
Certo, gli si dice: sarebbe meglio evitare, se fosse possibile. “Aspettiamo”, ripete lui. Ma se accadesse? “L’impresa si dovrà organizzare”. E la politica non deve fare niente? “Non credo si debba contare solo sulla politica, ma certo ci vorrà capacità negoziale. Andare armati per fare la guerra dei dazi non è un atteggiamento giusto. Trump grida da imprenditore più che da presidente, spara cento per poi ottenere dieci o quindici”. Ecco. Secondo la Lega, insomma secondo Matteo Salvini, l’Italia deve andare da sola da Trump a questi negoziati, senza l’Unione europea. “Ma no”, risponde Gaja scuotendo la testa. “Se davvero ci saranno dei dazi sarà l’Europa intera a far pesare le sue dimensioni economiche”. L’Europa è una forza per l’impresa italiana? “Ah, ma questo è sicuro. Io sono un europeista convinto. Dobbiamo lavorare per una federazione, coi nostri figli e nipoti in mente, altrimenti contro Cina, Usa, India, cosa potrebbero mai fare nazioni piccole come l’Italia?”. Anche se, in realtà, è su quel “da soli” che si basa un’intera filosofia da queste parti: il gusto di appartenere a un pezzo della geografia dell’eccellenza italiana, le Langhe, Alba, la città di Fenoglio, dei Ferrero, e di Angelo Gaja, appunto, il Mozart del vino. Il successo e la consapevolezza (elegantemente dissimulata) di chi sa fare tutto bene. Senza attendere manne dal cielo. Dunque, se si dovesse perdere qualcosa in America “significherà che dovremo saper vendere di più in altri mercati”, dice Gaja. “C’è l’Asia. E sempre di più ci sarà anche l’Africa. Il vino piace, incuriosisce, attrae, ha una ricchezza incredibile, affonda le radici nella storia, nell’umanità, nel paesaggio, nella religione, nella tradizione”. E allora? “E allora, anziché attendere che qualcuno ci salvi, dobbiamo rimodulare il discorso, raccontarci all’estero ancora di più e ancora meglio”. L’Italia è un marchio che si vende bene. Anche con la Russia, nonostante le sanzioni legate alla guerra in Ucraina, Gaja non si è fermato, come tantissimi altri. Fare, saper fare, saper far fare, far sapere. “Abbiamo continuato a vendere. Il mercato russo rappresentava il 4-5 per cento dell’export, forse anche meno, e abbiamo perso un 25-30 per cento. Ma il nostro importatore russo, durante una fiera a Parigi, a febbraio, mi ha detto che se ci sarà un cessate il fuoco i consumi esploderanno. Lì la gente ha voglia di far festa. Mi ha detto: ‘Vedrete una crescita del consumo del vino incredibile, specialmente a Mosca’”.
E insomma è un uomo che guarda il bicchiere mezzo pieno, Angelo Gaja. Non perché ignori il vuoto, ma perché sa come riempirlo con quelle trecentomila bottiglie che non si contano ma si pesano, come diceva Enrico Cuccia a proposito del mercato azionario. “Un imprenditore deve essere realista, ma più improntato sull’ottimismo”, dice. Deve avere curiosità, coraggio, fantasia: il muscolo dell’anima. “Deve osare”. Un po’ come quando Gaja portò in Italia le botti di barrique, che sembravano un’eresia. O come quando si mise in testa di fare del vino in Toscana e allora lo chiamò “Magari”, evocando il desiderio, la speranza, l’ambizione di creare, lui piemontese delle Langhe, un vino straordinario a Bolgheri. “Altrimenti come fai ad andare avanti se sei pessimista?”. Dunque: Magari. E’ la piemontesità che parla, verrebbe da dire. Quella di chi sa che “lo stato fa le sue cose e l’imprenditore si deve muovere indipendentemente, deve risolvere i problemi con la sua capacità”. Una capacità che “gli imprenditori italiani in generale aguzzano con l’ingegno, abituati a sbrogliarsi con una burocrazia che cresce e non aiuta”. Ecco.

Da qui, il discorso scivola quasi naturalmente su un gioco che gli propongo: paragonare i politici ai vini. Gaja ci sta, con quel guizzo negli occhi che tradisce il piacere della provocazione. Matteo Salvini che vino è? “Non so bene dove collocarlo tra i vigneti, con queste sue bizzarrie”, ride. “Forse direi che è un vino dealcolato”, un vino senza spirito. E Tajani, che vino è Antonio Tajani? “Tavernello o Rosatello”, vino in cartone. Giorgia Meloni, invece? “Lambrusca, anche se vorrei ancora pensarci... non so. C’è il vino laziale Est! Est! Est!, ma per lei potrebbe essere Ovest! Ovest! Ovest!”. Elly Schlein? “E’ uno Sfursat”, Nebbiolo appassito ma giovane e fresco. Matteo Renzi? “Ah, beh, è un Pulcinculo, anche se non è il nome di un vino ma di una varietà indigena toscana”. E Giuseppe Conte? “Di vini che nel nome esprimano la ‘quasità’ mi fa fatica trovarne. Troppo orgogliosi, i produttori italiani”. Trump? “Non è un vino, non è nemmeno una bevanda alcolica, d’altra parte è astemio. Quando lo hanno eletto, un mio amico mi ha suggerito: ‘Mandagli subito una cassa di vino’. Ci ho pensato. Ma se neanche beve?”. Putin invece è una vodka che ti stende? “Senza dubbio”. E il presidente cinese Xi Jinping? “Mi è piaciuto quando gli hanno chiesto se fosse preoccupato di Trump e lui ha risposto in questo modo: ‘Preoccupato no, curioso sì’. Una bella risposta”.
E alla fine viene da pensare, ascoltandolo, che a Gaja, soprattutto facciano simpatia le due signore della politica, Schlein e Meloni. Pur così diverse. E infatti è un’immagine che gli piace, quella di una democrazia viva, con due donne che “si sbattono in modo incredibile, con un’energia straordinaria”. Ognuna con i suoi limiti e i suoi meriti. Per chi vota Angelo Gaja? “A giro li ho votati quasi tutti”. Pure Grillo, una volta. “Per protesta”. E Meloni? “Non ancora”. In tanti dicono che Meloni è brava, sì, ma che la classe dirigente del suo partito è inadeguata. “Ma ne siamo sicuri? A me per la verità piace Guido Crosetto”. Crosetto è piemontese. “Sì, ma non lo conosco. Semplicemente, tutte le volte che lo leggo sui giornali o lo ascolto mi sembra di sentire delle parole riflettute. E penso pure che Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari non siano fuori posto. Anzi. Come pure Giancarlo Giorgetti, anche se non è del partito di Meloni”. E Francesco Lollobrigida, il ministro dell’Agricoltura? “Ha fatto qualche gaffe, è vero, ma ha anche detto delle cose che non sono sbagliate. Malgrado i risolini”. Per esempio? “Per esempio, il suo progetto di riconoscere la cucina italiana come patrimonio dell’umanità è una cosa giusta. All’estero i ristoranti di cucina italiana hanno svolto una funzione importantissima di promozione di tutti i prodotti dell’agroalimentare italiano, dai prosciutti all’olio d’oliva, all’aceto, ai vini. E addirittura hanno contribuito a crearla, la cucina italiana, che a lungo era stata considerata soltanto un insieme di cucine regionali. Non sono cose di secondaria importanza queste. Pensate a Marcella Hazan, la scrittrice di libri di cucina, originaria di Cesenatico, che negli anni ’80 e ’90 ha insegnato agli americani a mangiare italiano, superando persino i food writer francesi. E’ una figura dimenticata. Eppure ha fatto un lavoro straordinario, ma noi non abbiamo avuto riconoscenza per questa donna”.
Il castello di Barbaresco, dove lo incontro, è un testimone silenzioso della visione pragmatica, ma anche fantasiosa di Angelo Gaja. Lo ha comprato nel 1993, strappandolo al tempo e all’abbandono. “Era una scatola vuota e fragile”, dice. “Con crepe che raccontavano anni di incuria. Due produttori, Giacosa e Stupino, l’avevano preso nel ’76-’77, intuendo forse che questa zona sarebbe diventata di prestigio, ma non sapevano bene cosa farne”. Lui, invece, aveva un’idea: “Abbiamo avviato un recupero lungo, quasi sei anni, un lavoro paziente per rafforzarlo – pali franchi per sostenerlo, interventi che non si vedono ma si sentono”. A guidare il progetto c’era Giovanni Bo, un architetto che Gaja descrive con un misto di ammirazione e di rispetto: “Un uomo straordinario, di provincia, non un archistar”. E quando Gaja dice “di provincia”, come vedremo presto, intende forse uno dei massimi complimenti possibili. “Mi piaceva il suo modo di interpretare l’architettura: sobrio, pulito, netto. Gli ho dato fiducia, e lui la meritava appieno. Non intervenivo nei suoi progetti, facevo attenzione a non tirare su un sopracciglio per timore che cambiasse qualcosa per accontentarmi. Il mio compito era costruire la squadra attorno a lui, trovare i finanziamenti, ma l’opera era sua”.
Bo, mancato nel 2023, dopo aver restaurato e ampliato anche la cantina di Barbaresco, ha lasciato un’impronta che Angelo Gaja custodisce. Oggi il castello è un gigante discreto, sottoutilizzato per scelta. “Accogliamo visitatori – importatori, ristoratori, qualche privato – ma non è aperto a tutti. Chi viene paga trecento euro, che vanno in beneficenza, e questo frena i visitatori, ma va bene così. Le piccole cantine vivono di turismo, vendono direttamente. Noi no”. Al civico 15 di Via Torino, la strada più larga di Barbaresco, che è un borgo minuscolo, c’è l’azienda vera e propria. Un cartello invita a non suonare, e precisa che non si riceve nessuno senza appuntamento. Inimmaginabile un messaggio del genere in Sicilia, a Napoli o anche a Roma. Ma non è snobismo, dice Gaja: “Siamo solo diversi”.
Barbaresco a fine inverno si svela in una quiete che sa di terra e nebbia. E’ bassa stagione, i turisti sono spariti, e il borgo – seicento anime appena, un gioiello fragile tra le colline – si avvolge in un silenzio rotto solo dal vento che scuote le foglie dei vigneti. Il cielo è grigio, pesante, come un coperchio sopra le case, e la luce tenue disegna ombre lunghe sulle stradine vuote. Non ci sono folle, né voci, poche automobili, solo il profumo umido della campagna e il rumore lontano di un trattore che lavora ancora, ostinato. “E’ la provincia”, dice Gaja. Ecco la parola che ritorna. La provincia. “Il motore economico e culturale dell’Italia. Un giovane di città che si è interessato al vino e vuole conoscere la cultura del vino, va in provincia a visitare una cantina. Va a trovare un produttore, un artigiano che gli racconta una storia. E tenete conto del fatto che questa terra, questa provincia appunto, è anche, forse soprattutto, terra di grande industria. Qui siamo nelle terre di Michele Ferrero, dove la fabbrica ha distribuito ricchezza, assai più del vino e del turismo. Il fatturato di industria e servizi qui è dieci, forse dodici volte superiore al vino e al turismo. Quando ero ragazzo Ferrero dava lavoro a circa ventimila persone, tra diretti e indiretti, con pullman che prendevano i contadini-operai che abitavano entro trenta chilometri da Alba”. Contadini-operai, che categoria è? “Qui non c’è stata differenza, operai la mattina e contadini sul proprio appezzamento di terra dal pomeriggio. Non è un caso se qui, intorno ad Alba, non ci sono state le grandi lotte di fabbrica che hanno caratterizzato gli anni di piombo a Torino”.
Torniamo alla politica però, quella che, tanto per cambiare, della provincia operosa non si accorge. E non solo perché, per esempio, persino una donna energica come Giorgia Meloni, dice Gaja, non si avvede della provincia del nord: “Addirittura temo non si accorga persino di Milano”.
“Viviamo un’epoca di criminalizzazione del vizio. Ma la verità è che il vizio va governato, va capito che bere deve essere un piacere, una cosa che va gestita con misura, consapevolezza, educazione, e cultura. Il vino è questo. Ha un contenuto che affonda le radici nella storia, nell’umanità, nel paesaggio, nella religione, nella tradizione, una ricchezza incredibile”
Torniamo alla politica, dunque. Anzi, torniamo su Matteo Salvini “il dealcolato”. Lui che in teoria sarebbe del nord. Il suo nuovo codice della strada ha fatto crollare le vendite di alcolici nei ristoranti, è un fatto di cui si discute molto. I clienti non li ordinano più come prima, dicono i ristoratori. Benché in realtà questo nuovo codice della strada di Salvini non inasprisca nulla. Altro che alcol: acqua fresca. Tutto annunci. Però l’argomento è interessante, dico a Gaja, e si collega a una riflessione che gli avevo buttato lì al telefono giorni prima: la criminalizzazione del vizio. L’alcol come veleno da combattere. “Viviamo un’epoca in cui si criminalizza il vizio,” gli avevo detto, e lui aveva risposto con una frase che mi aveva colpito. “E’ vero”, mi dice ora, riprendendo il filo. “Ritengo che sia così, ma è anche vero che l’alcol fa male sul serio. Questo non lo si può negare. La verità forse è che il vizio va governato, va capito che bere deve essere un piacere, una cosa che va gestita con misura, con consapevolezza, con educazione, con buon senso, anche con cultura e studio”. Con moderazione? “Non mi piace la parola ‘moderazione’, mi fa pensare subito che devi essere attento perché altrimenti succede qualcosa di brutto. Preferisco ‘misura’”. E’ una distinzione sottile, o forse no. “L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che l’alcol è un veleno a qualsiasi livello venga assunto. Combattere contro la scienza, come vogliono fare alcuni produttori, è una guerra persa a lungo termine”. E mentre pronuncia queste parole, Gaja strizza appena lo sguardo con occhi che esprimono la pacata sicurezza del loro possessore, sia in generale, sia nella loro capacità di analizzare ciò che vedono. “Noi produttori di vino dobbiamo essere capaci di andare nel mondo e rimodulare il nostro messaggio. Far capire che il vino non è un alcolico qualsiasi”. Il ministro Lollobrigida ha detto che anche l’acqua fa male. Gaja ride, di nuovo, di questa sua risata silenziosa e contagiosa. “Si è fatto trascinare da un paradosso”. Ma poi si fa serio, perché il vino, per Gaja, non è solo alcol: “E’ il piacere di consumarlo a tavola con gli amici, è la convivialità. E’ una bevanda ‘terribile’, nel senso di straordinaria. Quali altre bevande nel mondo occidentale si accompagnano al cibo, alla tavola? Non c’è niente che faccia competizione al vino”. E’ una questione di cultura, insiste: “Il vino ha un contenuto che affonda le radici nella storia, nell’umanità, nel paesaggio, nella religione, nella tradizione, una ricchezza incredibile”.
Il tema però tocca anche il codice della strada, insisto, che preoccupa i ristoratori per il calo delle vendite. “E’ una cosa normale”, dice lui. E qui viene fuori, ancora una volta, l’imprenditore piemontese, ottimista e sicuro delle sue capacità. “Chi guida un’automobile deve essere in condizione di non creare problemi. Gli stranieri che vengono nelle Langhe usano i taxi, vanno a cena e si fanno riportare a casa dall’autista. Quando arrivano queste norme, nei primi due o tre mesi c’è un impatto magari negativo, poi ci si riprende. Ci si abitua. Si trova un equilibrio”. Lui stesso è attento: “Quando bevo qualcosa in più, lo faccio in un momento in cui il pranzo o la cena ha dei tempi più lunghi. Non mi metto in automobile. Ma il vino non è un superalcolico, lo ripeto. E’ una cosa completamente diversa”.
Sul vino dealcolato (nessun riferimento diretto a Salvini) invece, è scettico. Gaja farà mai il Barbaresco senza alcol? Il Ca’ Marcanda senza spirito? “Non lo farei il vino senza alcol, con tutto il rispetto. Non estenderei il nostro marchio a questa produzione. Ma non lo dico con disprezzo. Qualcuno lo farà, ne sono sicuro. E penso che entrerà più in concorrenza con le birre”. O con la CocaCola, chissà. “Il vino ti permette di salire su un palcoscenico, ha un contenuto culturale elevato. In passato era una componente alimentare, oggi non lo è più, è una bevanda edonistica. Basti pensare che i consumi sono scesi moltissimo, da 120 litri per abitante nella decade ’60 fino ai 22-23 litri di oggi. Ed è ancora un numero secondo me elevato. Scenderà ulteriormente, e il cambiamento climatico imporrà limitazioni di produzione. Ma il vino resta una ricchezza strepitosa”.
Gli chiedo perché tanti politici e vip, come Massimo D’Alema o Bruno Vespa, si mettano a fare vino. “Ci sta,” risponde lui. “Fanno pure buoni vini, perché hanno un consulente come Riccardo Cotarella. E’ chiaro che Cotarella li fa buoni”. Buoni, ma tutti uguali? “Metterci l’anima dentro, metterci qualcosa di tuo, è un’altra cosa. Non basta il grande consulente. Per l’anima ci vuole l’artigiano”.

A questo punto, lo osservo meglio, Angelo Gaja. Artigiano. E’ un uomo di altezza media, magro, capelli bianchi, un’aria di sorniona bonomia su un passo elastico. Indossa un abito blu, sopra a un golfino rosa. E quel rosa è il primo dettaglio scapigliato. Il secondo sono gli occhiali. Porta occhiali con una montatura disegnata a losanghe bianche e nere, quasi a scacchi, da designer o da artista pubblicitario. E subito mi colpisce il parallelo tra i colori degli occhiali e le etichette delle sue famose bottiglie, quel contrasto netto tra bianco e nero che caratterizza proprio il marchio Gaja. “Il nero è il passato, sul quale c’è posto al massimo per il brand, mentre il bianco è il presente, il futuro”. E’ un design pulito, minimalista, che richiama il lavoro di suo padre Giovanni, il primo a esaltare il nome “Gaja” su etichette audaci, come quella del 1956, con il disegno del paese, che mi mostra in un corridoio del suo castello. La parola “Gaja” è più grande della parola “Barbaresco”. Molto più grande. Fu un’intuizione di marketing, ancora prima che questa parola entrasse persino nella lingua italiana: scrivere “Gaja” in caratteri maiuscoli, trasformandolo in un simbolo di qualità. “L’etichetta è il primo messaggio che dai al consumatore e molte volte penso che i miei colleghi non danno importanza all’etichetta. Ma devi sapere su cosa focalizzare il messaggio che dai”. E qual è il messaggio qui? “Il messaggio è che questo non è semplicemente un Barbaresco”. E’ un Gaja. “Mio padre aveva ventisette anni quando si mette in testa di trasformare il Barbaresco, cioè un sottovino in un sopravino. A quei tempi il Barbaresco era un underdog, per dirla alla Meloni, rispetto al Barolo. Un progetto folle, da sognatore, da artigiano appunto”. Artigiano, provinciale, e poi come vedremo anche “contadino”. Forse sono le parole che più ritornano nella conversazione con Gaja. E forse sono anche le parole che lo definiscono, o quelle con le quali vorrebbe essere definito.
Gli chiedo se il padre approvasse le sue novità, quelle che lui, da ragazzo portò in azienda, come le barriques che sconvolsero il Piemonte, viste in California durante un viaggio, o i tappi lunghi oltre sei centimetri e i colli delle bottiglie slanciati alla Modigliani. “Non mi ha mai ostacolato. E’ stato anzi molto generoso, mi ha lasciato fare. E’ successo che avessimo idee diverse, certo. E lui manifestava la sua diversità, faceva valere quella che era la sua idea, ma senza impedirmi di portare avanti i miei progetti”. E qui Gaja ricorda un episodio che riguarda un grande giornalista suo conterraneo: “Una volta, durante una vendemmia tardata che avevo organizzato per concentrare la qualità delle uve, una cosa che a quei tempi non si faceva, venne Giorgio Bocca. Ebbene, Bocca scrisse che mio padre mi guardava quasi con gelosia. E la cosa mi dispiacque, perché non era vero. Forse Bocca faceva riferimento a quel che succedeva nel mondo agricolo, quando i giovani, ricchi di energie, toglievano potere all’anziano. Ma non era il nostro caso”. Sorride, Gaja, pensando a Bocca: “Era una persona straordinaria, e a modo suo ironica. Ricordo che comprava bottiglie di Barbaresco in quantità elevata. Poi arrivava il conto, però, e lui scherzava sul prezzo”.
Il rapporto con il padre si riflette forse in quello con i suoi figli, Gaia, Rossana e Giovanni, tutti e tre in azienda. “A mio padre ho dovuto rubargli il mestiere”, dice. “Lui dava i saperi per scontati, non insegnava nulla, e io ho rubato molto con gli occhi. Una fatica tremenda”. Con i figli, invece, è diverso. “Li inondo di mail, di file, gli faccio delle note, e loro hanno creato una cartella che hanno intitolato spiritosamente: ‘Te l’avevo detto!’”. Ride, ma è orgoglioso dei figli. La famiglia Gaja si tiene solida, un’eccezione rispetto a tante imprese famigliari italiane – Caprotti, Agnelli-Elkann – dove i fratelli litigano tra loro e talvolta persino con i genitori. Le aziende famigliari si sfasciano. Ma non questa. “I miei figli camminano in armonia perfetta, un miracolo”.
Gaia, 45 anni, si occupa dei mercati esteri con un carattere “abbordabile”, Rossana, 42, segue le cantine, Giovanni, 32, porta il nome del nonno ed esplora l’export. “Devono diventare artigiani,” insiste Gaja, “imparare un po’ di tutto: vigneto, cantina, mercato, per parlare con gli specialisti in modo adeguato. Nel frattempo mia moglie Lucia e io ci rendiamo ancora utili”. Altroché. Lucia, la signora Gaja, è una Gaja al cubo.
La solidità viene da lontano, e sempre da una donna: la nonna Clotilde Rey, francese della Savoia, maestra elementare che sposò il nonno nel 1905. “Arrivò da una famiglia di commercianti di capre e pecore. Non sapeva niente di vino, ma in quatto o cinque anni appena capì tutto”. E allora Angelo Gaja mi racconta che a undici anni la nonna gli insegnò quello che sarebbe poi diventato, di fatto, il motto di famiglia, il mitico Fare, saper fare, saper far fare, far sapere. “Disse a mio nonno e poi a mio padre: ‘Per produrre vino di qualità devi partire dal vigneto’. Era un concetto nuovo, allora i commercianti compravano uve, non possedevano terra. C’erano i contadini che coltivavano e poi c’erano le cantine. Mondi separati. Lei spinse a comprare vigneti, a risparmiare per investire. Anche a costo di togliersi il mangiare di bocca”. Era la civiltà contadina. La terza parola che ritorna, dopo artigiano e provinciale. “La nonna mi mandava a prendere delle fettine di carne così sottili che sembravano carta velina, le metteva in una ghiacciaia, e ce le teneva per non so quanti giorni, perché prima bisognava mangiare le cose che c’erano già. Non si poteva sprecare nulla. Il risultato è che mangiavamo sempre carne vecchia. Addirittura maleodorante”. Intreccia ricordi, Gaja. Come se lavorasse a maglia: diritto-rovescio, diritto-rovescio, e via di questo passo. “Pure con il pane era così. Lo impastava, lo portavamo al forno, io sentivo questo odore inebriante di pane caldo che invadeva tutte le strade del paese: ma guai a mangiarlo. Prima bisognava consumare quello vecchio. In pratica mangiavamo sempre e soltanto pane stantio”. La civiltà contadina era tremenda, gli dico. Ma lui non è d’accordo. “Aveva una sua nobiltà”, dice. Ed emerge un altro ricordo, quasi un apologo. Era il 1962, Angelo aveva ventidue anni, e il padre lo portò alla Certosa di Pavia, in un ristorante. “Eravamo Gino Veronelli, Gianni Brera, mio padre e io. Si comincia con un piatto di rane. Non avevo mai mangiato le rane. Le succhiavo lasciando gli ossicini, che accumulavo nel piatto. E Gianni Brera mi dice: ‘No, le rane si mangiano così, guarda, con tutte le ossa. Da dove credi che lo prendiamo il calcio noi della bassa padana?”. Poi arrivarono in tavola dei vini toscani. Erano i vini Spalletti, Antinori, Frescobaldi... e altri grandi case. “Mio padre a quel punto esprime un po’ di fastidio per il fatto che queste cantine possedute da aristocratici utilizzassero gli stemmi nobiliari sulle etichette. Come se fare vino non fosse un mestiere da agricoltori e da artigiani, ma un hobby per ricchi signori di campagna. Ebbene, Brera lo interruppe: ‘Ma no’, gli dice. ‘Anche tu sei un aristocratico. Proprio come me. Vedi, noi apparteniamo alla dinastia dei principi della zolla”. E a questo punto Gaja sorride un’ultima volta, perché questa piccola frase lo abbaglia come contenesse tutta la primavera ormai alle porte: “Bello questo concetto, non trovi? Anche a me piace sentirmi così: un principe della zolla”.