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città piene
Le contraddizioni del pil da turismo in tempo di semi-guerra
Un settore a basso valore aggiunto pro capite. Le carenze dei trasporti. L’equivoco della pedonalizzazione, forma diversa di inquinamento
In un documento del novembre 2024 pubblicato sul sito del ministero del Turismo si sostiene con un certo orgoglio di settore che la quota di pil derivante direttamente e indirettamente dalle attività turistiche vale circa il 18 per cento del pil. Con maggior prudenza, le stime più ragionevoli si attestano a poco più del 10 per cento, considerando i servizi di alloggio e ristorazione (4,1 per cento), i servizi connessi (per esempio una quota dei trasporti) e l’indotto: attività artistiche, concerti, musei e commercio, dal lusso fino ai gadget nei negozietti dei centri storici disintegrati.
Sull’origine e i vantaggi di questa fonte di reddito collettivo c’è da discutere. Dalla metà degli anni 90, una parte degli osservatori, degli economisti, degli operatori economici e dei decisori pubblici ritiene che il futuro della nostra economia debba assecondare lo sfruttamento della nostra ricchezza paesaggistica, architettonica e artistica (i famosi giacimenti culturali di Gianni De Michelis). La tesi è nota: arretra la manifattura, avanza il turismo. Un po’ a causa del tic declinista manifestatosi negli anni Dieci, questo approccio svela una pigrizia di fondo e una disponibilità filosofica alla decrescita.
Un esempio. In Italia ci sono circa 340.000 ristoranti attivi registrati presso le camere di commercio. Un ristorante ogni 170 abitanti. Ogni esercizio ha una media di quattro addetti. Dunque abbiamo la cifra record di un cameriere/cuoco/cassiere ogni 40 abitanti, il che spiega perché – comprensibilmente – non ci sia la disponibilità dei restanti 39. Calcolo da rammentare alla consueta lettura dei titoli estivi sui camerieri mancanti.
Il settore turismo in senso stretto conta circa 1,4 milioni di lavoratori. Ma nel complesso interessa – compresa la quota parte dei trasporti dedicati, la quota parte dell’indotto e gli stagionali – 4,5 milioni di addetti, equivalenti a 3,2 milioni di posti di lavoro a tempo pieno.
Nell’alta tecnologia – cioè servizi It, commercio Ict, Ict manifatturiero, Tlc, farmaceutico, biomedicale e aerospazio – sono poco meno di 850.000.
Con una conseguenza che riguarda le retribuzioni. Il valore aggiunto pro capite (cioè il contributo che ciascun lavoratore conferisce alla creazione di ricchezza prodotta dal suo settore) nei servizi di ristorazione e alloggio è di 37.000 euro annui, nella fabbricazione di computer è di 101.000 euro annui. Ed è questa la ragione fondamentale per cui le nostre retribuzioni medie non crescono. Non tanto perché la contrattazione collettiva è inceppata, ma più semplicemente perché non investiamo abbastanza nei settori ad alto valore aggiunto dove abbiamo pochi addetti impiegati.
Il punto interessante – e del tutto irrazionale – è che nonostante una pandemia, un’invasione di terra in mezzo all’Europa e la minaccia daziaria (e non solo) del trumpismo, c’è ancora un grande entusiasmo per l’economia da turismo per quanto sia molto esposta all’irrigidimento dei mercati e delle frontiere e alla mobilità delle persone. E’ come se nel 1914 i Renault e i Peugeot fossero stati incoraggiati dal presidente Poincaré a investire in catene alberghiere a Cabourg e Trouville.
Il secondo punto interessante – e altrettanto irrazionale – è che dalla metà degli anni 90 i sostenitori del modello turistico di sviluppo (a destra, sinistra, centro, governi nazionali, regionali, enti locali) perseguono disegni molto confusionari e contraddittori. Senza entrare nel merito delle opzioni, ecco alcuni esempi di ambiguità. Il paese più bello del mondo tutela il paesaggio per ragioni turistiche – oltre che costituzionali – ma distrugge sistematicamente il suo paesaggio con pale eoliche e campi fotovoltaici. Un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 marzo raccontava di un geometra di Castelluccio dei Sauri (Foggia) che con un capitale sociale di soli 10.000 euro progetta un campo eolico da un miliardo per l’invasione della Maremma (cosa si nasconde in questo caso di genialità turistica?).
In molti comuni italiani, si afferma di voler attrarre turismo di qualità, ma quella qualità viene costantemente minacciata da una pressione antropica insostenibile. Venezia e Firenze sono città già perdute, Bologna e Roma tra poco, assediate da una delle più significative illusioni cognitive dei nostri tempi: la pedonalizzazione. E’ evidente che la sostituzione di automobili con dehors, tavolini, baretti e ristoranti non è in sé un fattore disinquinante. E’ solo una forma diversa di inquinamento. E la pedonalizzazione è un involontario fattore attrattivo di attività iperturistiche: si svuotano le strade dei residenti automuniti per riempirle di B&B e di servizi rivolti a residenti temporanei. Un articolo sul Monde del 28 marzo racconta la “disneylandisation” della capitale.
In generale si afferma di voler aumentare il numero annuale di turisti, ma non abbiamo servizi di trasporto e reti in grado di reggere un eccesso di pressione come indica la frequenza degli incidenti tecnici sull’alta velocità ferroviaria o la oscillante efficienza della mobilità in affitto su strada (Taxi, Ncc, Car Sharing).
C’è un terzo punto da considerare. Se per i dipendenti il turismo ha un basso valore aggiunto pro capite, il settore – pur con margini risicati e molto rischio operativo – è ovviamente più conveniente per gli imprenditori. Ma con una riserva di natura antropologica che, da un punto di vista delle responsabilità, andrebbe condivisa con il resto delle classi dirigenti che favoriscono le scelte di indirizzo (sindaci in testa). Con il denaro guadagnato dallo sfruttamento, dal consumo e dalla distruzione sistematica di città, luoghi d’arte e paesaggi che cosa potremmo comprare che sia altrettanto bello e piacevole rispetto a quanto abbiamo distrutto?