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dazi 5.0
Dall'innovazione al sostegno per l'export: la giravolta del governo su Transizione 5.0
La misura "architrave" della politica industriale del governo è destinata a fallire. Le imprese chiedono di usare i fondi Pnrr in chiave anti-dazi, ma serve l'ok di Bruxelles. L'effetto potrebbe essere quello di pagare con i soldi europei i rincari determinati da Trump sul mercato americano
Dopo una settimana di dazi americani, ieri Giorgia Meloni e i suoi ministri hanno incontrato le imprese e promesso di aiutarle. All’interno del perimetro del Pnrr, uno dei tesoretti che potrebbe alleviare gli impatti delle politiche protezioniste sull’export è quello che un anno fa il governo definiva “l’architrave” della sua politica industriale: Transizione 5.0. I numeri restituiscono una fotografia impietosa di come (non) ha funzionato: su 6,3 miliardi di fondi a disposizione ne sono stati richiesti solo 640 milioni. Dovevano servire per innovare l’industria italiana, invece potrebbero finire per socializzare i rincari determinati sul mercato americano dalla politica di Donal Trump.
La misura fa parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Secondo gli impegni presi dal governo, il programma andrebbe portato a termine entro la fine dell’anno. Ma dopo i ritardi accumulati dal ministero guidato da Adolfo Urso per renderlo operativo, ora l’erogazione delle risorse procede con il contagocce. Il motivo? Lo hanno spiegato molto bene le imprese nei mesi scorsi, chiedendo a Urso di semplificare le procedure d’accesso. Alcuni correttivi sono stati inseriti, ma troppo tardi e con modalità incerte. Impossibile che con questo ritmo l’industria italiana riesca ad assorbire i 5,5 miliardi rimasti nel fondo. Così, Bruxelles permettendo, cambiare la destinazione d’uso potrebbe essere vantaggioso anche per il governo, che rischia altrimenti di bucare una scadenza del Pnrr. E’ possibile, tecnicamente? “Il Pnrr segue un protocollo di spesa, con degli indicatori che sono totalmente concordati e monitorati dalla Commissione europea”, ricorda parlando con il Foglio Chiara Goretti, la “custode” del Piano nazionale di ripresa e resilienza con Mario Draghi a Palazzo Chigi, che la nominò all’epoca coordinatrice della segreteria tecnica. “Gli aiuti alle imprese rientrano nelle finalità del piano – ragiona Goretti, ex membro del Consiglio dell’Ufficio parlamentare di bilancio – per cui potrebbe anche essere. Però non è solo una scelta del governo italiano: si può fare solo a condizione di un negoziato con parere positivo della Commissione europea, attivando un processo di negoziazione formale, come è già avvenuto su altri fondi”.
Sulla questione aveva già iniziato a ragionare il ministro per il Pnrr, Tommaso Foti, prima che l’Amministrazione americana confermasse i dazi. L’idea – espressa a Brescia in un convegno – era quella di dimezzare il Piano Transizione 5.0 proprio per mancanza di richieste e destinare almeno 3 miliardi ad altro. A confermare di voler smontare “l’architrave” della politica industriale del governo è stato anche lo stesso Urso, padre della misura. Parlando con i giornalisti a metà marzo, il ministro ha riferito di contatti in corso con Bruxelles per chiedere di essere autorizzati a spostare le risorse. Così, quando la scorsa settimana la premier Giorgia Meloni ha convocato i ministeri competenti per elaborare una risposta ai dazi di Trump, ecco che il Piano Transizione 5.0 è stato proposto come possibile asso nella manica. Il benestare è arrivato anche dagli industriali. Lo stesso presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, lunedì ha chiesto in un’intervista al Corriere della sera di usare ciò che resta del “piano che non funziona” per affrontare la priorità attuale: i dazi. Una convergenza perfetta, che si è rinsaldata ieri durante l’incontro a Palazzo Chigi. “Ho letto in questi giorni diverse proposte, contenute nelle interviste che alcuni di voi hanno rilasciato alla stampa. Diverse di queste mi paiono di buon senso e penso possano essere approfondite”, ha detto Meloni.
In attesa che il governo concluda le sue valutazioni e che la Commissione europea si esprima, il dato certo è che oggi avere a disposizione queste risorse significa che il piano più importante per innovare il tessuto industriale italiano non ha funzionato. “Usare oggi queste risorse potrebbe essere un’occasione per rimediare e per recuperare ciò che non è stato speso”, dice al Foglio Riccardo Rosa, il presidente dell’associazione che riunisce i costruttori di macchine utensili, robot e automazione (Ucimu). E’ proprio questa filiera ad aver pagato il prezzo più alto dei ritardi di Transizione 5.0, con un calo netto della produzione nel 2024 trainato dalla forte contrazione degli ordini italiani, congelati in attesa che il governo approvasse il piano. “Certo – riconosce Rosa – utilizzare queste risorse per sostenere l’export non è un’occasione per potenziare il mercato interno, ma ormai siamo agli sgoccioli per l’acquisizione degli ordini e i tempi non permetterebbero le consegne entro fine anno. Almeno così quei fondi andrebbero a salvaguardare il mercato americano, primo sbocco per le macchine utensili prodotte in Italia”. Il meccanismo allo studio prevede crediti d’imposta per coprire almeno una parte degli sconti che le aziende italiane saranno costrette a fare agli americani per garantirsi di non ridurre le esportazioni. In altre parole, i soldi del Pnrr sarebbero usati per mitigare i rincari che altrimenti dovrebbero sostenere i consumatori americani: fondi europei per ripagare la politica tariffaria di Trump.



Fra politica e pericoli