
(foto generata con Grok)
l'editoriale del direttore
La caciotta robotica salverà l'Italia
I dazi fanno paura, sì, ma sono anche il termometro perfetto con cui ricordare che il Made in Italy non si difende solo a colpi di “recupero delle tradizioni”. Trump costringe l’Italia a uscire da Instagram. Numeri e risultati possibili
Paura, ma anche orgoglio. Punizione, ma anche termometro. Mannaia, ma anche specchio. I dazi sono una tragedia, lo sappiamo, e sono il riflesso di un mondo fatto di sospetti, di conflitti, di litigi, di guerre e di sgambetti reciproci. I dazi, quando vengono imposti, sono il sintomo di una debolezza, non una prova di forza, e chissà che anche Trump non trovi un modo, o una scusa, per tornare indietro su qualche passo, e accontentarsi di un piatto di lenticchie per evitare di dover fare i conti con le conseguenze complicate, anche per l’economia americana, delle sue battaglie tariffarie. I dazi, però, quando arrivano all’interno di un paese, di uno stato, di una nazione, non hanno solo un effetto punitivo, di cui abbiamo letto tutto, ma hanno anche un altro effetto, di cui abbiamo letto poco, che coincide con un punto che, nei momenti di tristezza, andrebbe considerato.
I dazi colpiscono le merci più esportate. Colpiscono dunque le merci più di valore (sempre che i dazi siano sufficienti a rallentare le esportazioni dei nostri talenti). E in questo senso un dazio che arriva è anche un termometro diverso rispetto alla semplice misurazione del capriccio di un presidente. E’ anche la fotografia del successo italiano: i dazi colpiscono ciò che funziona, colpiscono ciò che conquista il mercato, colpiscono ciò che rende un paese speciale. E’ anche grazie ai dazi che in questi giorni ci siamo ricordati improvvisamente che l’immagine del made in Italy è molto diversa da quella bucolica offerta dalla politica. E’ anche grazie ai dazi che in questi giorni ci siamo ricordati improvvisamente che l’Italia non vive solo di splendide caciotte. E’ anche grazie ai dazi che in questi giorni ci siamo ricordati che l’Italia non eccelle nel mondo solo grazie a ciò che è trendy, grazie alla moda, grazie al vino, grazie all’agricoltura, ma eccelle nel mondo grazie a un’altra forma di made in Italy che spesso non conquista le prime pagine dei giornali. Per esempio, la meccanica non elettronica. Per esempio, la meccanica elettrica. Per esempio, la robotica di precisione.
Qualche numero per capirci. Secondo l’Osservatorio economico del ministero degli Affari esteri, nel 2024 l’Italia ha esportato verso gli Stati Uniti beni per un valore di circa 64,8 miliardi di euro, con un saldo commerciale positivo di circa 38,9 miliardi di euro. Più della metà dei beni esportati in America è suddivisa in tre categorie. Macchinari e apparecchi, che rappresentano il principale settore di esportazione verso gli Stati Uniti, con un valore di circa 13 miliardi di euro.
Articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici, e anch’essi rappresentano un valore di circa 13 miliardi. I mezzi di trasporto, le cui esportazioni ammontano a circa 8 miliardi di euro. La componente che riguarda i prodotti alimentari, le bevande e il tabacco rappresenta l’11 per cento del totale. Eppure, nel dibattito pubblico, l’industria che esporta di più non trova grande spazio sui giornali, viene raramente celebrata dalla politica, e alla fine questa spirale tende ad assecondare l’idea che sia bello, in Italia, solo ciò che è piccolo, e che in fondo il lavoro industriale pesante, essendo figlio della globalizzazione, sia un lavoro poco nobile, poco taggabile, un lavoro di cui ci si debba quasi vergognare.
Secondo un sondaggio condotto pochi mesi fa da Federmeccanica, nel nostro paese, solo il 12,4 per cento degli italiani crede che l’Italia sia un paese industriale di peso (in Germania il 66,4 per cento) e nell’immaginario collettivo i settori chiave dello sviluppo sono il turismo (27,7 per cento), il commercio (15,4 per cento) e l’agricoltura (14,9 per cento): l’industria è solo al 17,4 per cento. Le filiere colpite oggi dai dazi sono le più ricche, le più solide, dunque quelle che possono sperare di poter difendersi con la qualità dei propri prodotti. Ma la vulnerabilità vera di questi settori non arriva dai dazi, o non solo, ma arriva da una politica miope che scopre le sue eccellenze solo quando queste vengono attaccate, dimenticandosi poi nella quotidianità che il made in Italy non lo si difende solo con il classico “recupero delle tradizioni” ma lo si difende con il più concreto investimento sulla robotica industriale, sulla meccanica di precisione, sulla robotica specializzata, sulla automazione alimentare, sulla componentistica per automotive (l’Italia è quinta al mondo tra i paesi esportatori di beni strumentali nei comparti automazione, creatività e tecnologia, con un export che vale quasi 28 miliardi di euro e un export potenziale di ulteriori 16 miliardi). E lo si difende, in fondo, provando a costruire manovre con le quali considerare una priorità non il trovare soldi per andare in pensione prima ma il trovare soldi per raddrizzare per esempio la traiettoria degli investimenti dedicati all’innovazione (nel 2024, l’Italia ha dedicato circa l’1,4 per cento del proprio prodotto interno lordo alla spesa per ricerca e sviluppo, un valore inferiore alla media dell’Unione europea, che si attesta intorno al 2,2 per cento del pil). Il dazio illumina un mondo che spesso non vogliamo vedere, che la politica schiva, che spesso non considera, e di cui ci si accorge solo quando qualcuno la colpisce, immersi nella logica del piccolo è bello, bloccati dal timore di dover portare al centro del dibattito verità elementari. Come il dover dire che le imprese che esportano di più sono quelle più globalizzate. Come il dover dire che le imprese che pagano meglio sono quelle più grandi. Come il dover dire che le imprese che si impongono sono quelle che innovano di più. Parlare del vero made in Italy, non solo di caciotte, che sono magnifiche, per la politica è spesso un problema, perché ciò che l’Italia sa fare non sempre corrisponde a ciò che la politica vuole valorizzare, perché per conquistare voti puntare sulla retorica dell’Italia piccola e bella ha un senso, si vende bene, mentre dover puntare sulla retorica dell’Italia delle multinazionali, della robotica, dell’innovazione, è meno spendibile, meno vendibile.
La stagione dei dazi di Trump è lì a ricordarci che il made in Italy non lo si difende combattendo l’Europa, ma lo si difende utilizzando l’Europa come uno scudo, come un alleato per proteggere la nostra capacità di saper trasformare le materie prime in prodotti di qualità, da esportare nei mercati globali. E la stagione dei dazi di Trump è lì a ricordarci anche un altro problema lampante: che ciò in cui siamo bravi va contro la narrazione semplicistica che la politica offre del paese. Difendere il made in Italy con un post su Instagram è facile. Difenderlo scommettendo su politiche industriali, investimenti sull’innovazione, diplomazia commerciale è invece meno semplice perché costringe i decisori a occuparsi meno di propaganda e più di realtà. E li costringe a fare i conti con un problema mica da poco: per proteggere ciò che sa fare l’Italia non occorre solo combattere politicamente chi mette sotto tiro le eccellenze del nostro paese a colpi di dazi ma occorre anche contrastare politicamente chi mette in pericolo ogni giorno le nostre eccellenze non instagrammabili ricordandosi della loro presenza solo quando queste vengono minacciate. I dazi sono una tragedia, lo sappiamo, ma studiare i dazi può essere un modo per imparare a proteggere tutto quello che il mondo ci invidia, e che noi spesso non vogliamo vedere.



Fra politica e pericoli