La retorica vincente di Meloni messa in crisi dall'amico Trump

Luciano Capone

Per la prima volta la premier non riesce ad offrire risposte convincenti agli elettori. Si è legata all'alleanza politico-ideologica con il presidente Usa, ignorando l'annunciata guerra commerciale contro l'Europa, e ora rischia di pagare dazio

Alla fine il Papa straniero che l’opposizione cercava per mettere in difficoltà il governo è uno dei migliori alleati politici della premier: Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti sta riuscendo laddove Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno sistematicamente fallito. Non c’è crisi o iniziativa politica, dopo due anni e mezzo di governo, che abbia messo in difficoltà Giorgia Meloni più dei dazi generalizzati imposti dal presidente degli Stati Uniti.

La premier non è stata minimamente turbata dalle piazze degli ultimi giorni, che anzi hanno solo mostrato la frammentazione dell’opposizione su temi fondamentali come la politica estera e di difesa. Non appare affatto preoccupata per i referendum della Cgil sul Jobs Act, anche perché il mercato del lavoro continua a macinare record. Non ha avuto alcuna difficoltà ad affrontare scontri politici e istituzionali, dalla polemica su Ventotene alla dialettica con la magistratura. Anzi, quando ci sono dialettica e polarizzazione, Meloni nuota nella sua acqua. È riuscita anche a gestire passaggi politici delicati, nonostante le divisioni nella maggioranza, come il “riarmo” europeo. Ma nel caso dei dazi no.

È la prima volta che Giorgia Meloni appare in difficoltà, non solo per le pesanti ricadute economiche, ma perché non riesce a dare una risposta. La risposta che manca non è tanto una soluzione, anche perché non è nelle disponibilità di nessun capo di stato che non risieda alla Casa Bianca, ma una narrazione politica. Rispetto a tutte le crisi finora affrontate, Meloni non è in grado fornire un racconto agli elettori né di cosa il governo intende fare né di cosa potrebbe accadere. La maggioranza di governo sbanda, tra una parte che addirittura elogia il protezionismo di Trump e indossa il cappellino Maga, una parte che semplicemente invita alla calma e un’altra che tenta di spiegare che in fondo non accadrà nulla: il made in Italy è talmente eccezionale e apprezzato, che gli americani continueranno a comprarlo a qualsiasi prezzo. Anche con i dazi.

Questa difficoltà è data dal fatto che Meloni si è legata strettamente a Trump e ora è impossibile prenderne le distanze. Circa un paio di mesi fa, la premier italiana è intervenuta al Cpac, l’internazionale dei conservatori, e ha fatto un discorso da alleata politica e ideologica del trumpismo, in cui l’annunciata guerra commerciale contro l’Europa è stata nascosta sotto il tappeto di generici richiami ai “valori” minacciati dalla “cancel culture”, dalla “ideologia woke” e dalla “sinistra radicale”: “La sinistra è nervosa e con la vittoria di Trump, la loro irritazione si è trasformata in isteria, non solo perché i conservatori stanno vincendo, ma perché i conservatori ora collaborano a livello globale”, aveva detto Meloni alla platea americana.

Queste parole e questa comunanza, più volte rivendicata, complicano la posizione politica della premier. La sua posizione di cautela, di invito al negoziato e di contrarietà ai controdazi europei – sebbene abbia fondatissime ragioni economiche, perché l’Europa che è più fragile ed esposta rischia di uscire dall’escalation con le ossa rotte – può apparire agli occhi degli elettori come una sorta di compiacenza, se non di servilismo, nei confronti di chi ha colpito pesantemente e direttamente l’interesse nazionale. Tutto il contrario della retorica “patriottica” su cui si fonda FdI.

Meloni crede ancora di poter fare “da ponte” tra Europa e Stati Uniti, e il suo viaggio a Washington del 17 aprile per discutere dei dazi con Trump è l’estremo tentativo per raggiungere una “mediazione”. C’è quindi ancora un margine per cui il rapporto dialogante con il presidente degli Stati Uniti possa rivelarsi un vantaggio politico, qualora la premier riuscisse a strappare a Trump qualche concessione tariffaria per l’Europa che Von der Leyen non è riuscita a ottenere. Ma, al contrario, potrebbe rivelarsi una passività qualora tornasse da Washington a mani vuote e senza poter dare una risposta convincente agli elettori. Il problema di Meloni è che tutto questo dipende dalla volontà erratica e imperscrutabile di Trump.

Al momento, i sondaggi mostrano consensi costanti per i partiti di governo, a livelli mai così alti a metà legislatura, ma una rilevazione di YouTrend indica che oltre l’80 per cento degli italiani non si fida di Donald Trump, e anche tra gli elettori di centrodestra la sfiducia supera i due terzi. Se la guerra commerciale avrà seri effetti negativi sui risparmi degli italiani e sull’economia reale, in termini di minore crescita e occupazione, Meloni verrà individuata come responsabile per aver riposto fiducia in un alleato così nefasto per l’Italia e per l’Europa, ma anche per l’Occidente, come Trump.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali