(LaPresse)

Una capitolazione

Che cosa ci dice l'improvvisa e inquietante vendita dei titoli di stato americani

Mariarosaria Marchesano

Trump applica una tregua di tre mesi alla guerra dei dazi per raggiungere i suoi obiettivi “senza distruggere le piccole imprese nel breve termine”. Wall Street recepisce il messaggio e inverte la rotta in discesa che andava avanti da almeno cinque sedute consecutive

Una pausa di 90 giorni, periodo durante il quale saranno applicate tariffe reciproche del 10 per cento a tutti i paesi tranne che alla Cina a cui viene, invece, applicato un ulteriore aumento al 125 per cento. L’ennesimo colpo di scena di Donald Trump va in onda nella serata di ieri su Truth, il social network di famiglia, dove, non a caso, qualche ora prima il presidente americano aveva detto, rivolgendosi implicitamente agli investitori, che questo è il miglior momento di comprare “perché andrà tutto bene”. Così Trump ha capitolato di fronte al crollo dei mercati azionari di tutto il mondo e accettato, almeno in parte, il suggerimento dell’amico miliardario Bill Ackman di applicare una tregua di tre mesi alla guerra dei dazi per raggiungere i suoi obiettivi “senza distruggere le piccole imprese nel breve termine” con l’aggiunta dell’auspicio che (alla Casa Bianca, è implicito) “prevalgano le menti più fredde”. 


Wall Street ha recepito il messaggio invertendo la rotta in discesa che andava avanti da almeno cinque sedute consecutive. Chissà se adesso Trump tenterà una mossa analoga con il mercato dei titoli di stato americani, i Treasury, che nella notte tra martedì e mercoledì, sono stati inaspettatamente scaricati dagli investitori che normalmente considerano questo asset un bene rifugio. Si è trattato della maggiore svendita dei titoli del debito americano dalla pandemia del 2020 – assicurano gli analisti – con rendimenti che, per le scadenze trentennali, hanno superato in alcuni momenti la soglia di allarme del 5 per cento (i decennali sono saliti al 4,5 per cento dal 4,2 per cento di febbraio) diffondendo pessimismo su tutti i mercati dei titoli di stato, compreso quello italiano (lo spread con i bund è salito ieri a 130 punti base). Questo scenario, inusuale perché di fronte a turbolenze sui mercati azionari e a timori di recessione economica i Treasury vengono acquistati e non venduti, ha fatto sorgere il timore che la Cina, che è uno dei due maggiori detentori del debito pubblico americano insieme con il Giappone, possa avere messo in atto una ritorsione per i superdazi imposti da Trump alle proprie merci, mossa alla quale Pechino, comunque, ha risposto dando il via a una vera guerra commerciale.

In realtà, per dire che si sia trattato di un “avvertimento” cinese a Trump non ci sono prove, anche se non si può escludere, mentre le cause di quello che è accaduto nell’ultima asta dei Treasury – definita “spaventosa” da un gestore di fondi sentito dal Foglio – potrebbero essere più articolate. Bisogna considerare il ruolo svolto dalle “margin calls”, meccanismi usati storicamente da alcuni tipi di trader per proteggersi dai rischi (a questa tecnica viene fatta risalire una delle cause della caduta di Wall Street del 1929), e più in generale il senso di sfiducia che si sta diffondendo tra gli investitori internazionali nei confronti dell’America. In effetti, se le ultime aste dei titoli di stato americani fossero un test di mercato sull’affidabilità di Trump, il risultato sarebbe una bocciatura in piena regola. 


Per alcuni analisti Trump sta vivendo il suo “momento Liz Truss”. Eppure, i rendimenti dei titoli di stato Usa, che lo scorso anno si erano impennati a causa dello stallo al Congresso sul tetto del debito, avevano imboccato una lenta discesa proprio quando il nuovo presidente si era insediato alla Casa Bianca. Era un chiaro segnale di apertura di credito nei suoi confronti. Poi, tutto è cambiato. Se Wall Street ha cominciato a registrare perdite vistose già a metà febbraio, quando i primi annunci di Trump su Canada e Messico hanno fatto temere il calo dei profitti delle società quotate, il mercato dei bond americani ha cominciato a lanciare segnali di insofferenza alcuni giorni fa, in concomitanza con l’approccio sempre più aggressivo sul fronte commerciale, fino ad arrivare al “sell off” di ieri. La considerazione che fanno gli investitori è questa: il debito pubblico americano è adesso al 121 per cento del pil. Trump si è insediato scommettendo che avrebbe potuto ridurre questo rapporto e il deficit di bilancio innescando la crescita economica con tagli fiscali. Ha anche promesso che le entrate dei dazi avrebbero contribuito a ridurre la spesa del debito. In realtà, oggi il risultato che il presidente americano potrebbe ottenere entrando in guerra tariffaria col mondo intero sarà l’esatto opposto: la spesa pubblica potrebbe lievitare e non ridursi sia per la necessità di sostenere il ritorno delle catene produttive in America sia per effetto del peggioramento di economia e occupazione. Riuscirà Trump a cambiare questa opinione che si sta consolidando?

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