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il doppio bluff

I punti deboli di Trump esistono. Lezioni anche per l'Italia 

Stefano Cingolani

Il presidente americano ha scoperto il lato oscuro del protezionismo: Wall Street crolla e il debito Usa trabocca. L’unica via razionale è zero dazi, commercio libero, fine dell’autarchia. Giorgia Meloni ha la chance di guidare la svolta o restare ostaggio della propaganda

Per fortuna c’è il mercato, quel realismo democratico del mercato che tampona le follie degli autocrati in preda a egotismo senile. Sui dazi adesso si tratta, ci sono 90 giorni per negoziare, ma su che basi? Donald Trump gioca un doppio bluff, per vederlo bisogna rilanciare come nel poker. Il primo bluff è stato l’annuncio mediatico nel Rose Garden con la sua lavagnetta e quei conti da scuola elementare. Il secondo adesso è prendersi una pausa lasciando all’opera tutti i dazi già varati. Il segretario al Tesoro Scott Bessent che nel mercato ha pascolato tutta la vita, ha contribuito a tirare il freno (anche facendo filtrare che era pronto a dimettersi). Vorrebbe avere più spazio rispetto al “famoso economista Ron Vara” alias Peter Navarro signore delle tenebre commerciali, ma ora dice che va tutto come previsto. Nessuno ci crede. Come reagire? Per il contropiede canadese è già troppo tardi. La dimostrazione di forza alla cinese porta in un vicolo cieco. C’è la guerriglia vietnamita: piegarsi e rilanciare. C’è la strategia del suq che punta sugli sconti. L’Unione europea ha scelto di temporeggiare, ma la tattica più efficace è cambiare il campo da gioco, non più il neo protezionismo più o meno contrattato, ma il ritorno al libero scambio: zero dazi per tutti e su tutto, sia merci sia servizi. Lo ha scritto in un editoriale il Wall Street Journal, lo ha proposto anche Arthur Laffer già guru della Reaganomics. Giorgia Meloni giovedì prossimo ce la farà a tenere questa linea?

Tra l’altro sarebbe una bella risposta agli “autarchici” di casa sua. Le borse hanno dato la sveglia per prime e continuano a suonare: ieri negli Usa hanno aperto di nuovo in discesa, tutti gli indici giù, attorno a meno 3 per cento. Dopo una prima sbornia elettorale, il Dow Jones è sceso da 45 mila a 40 mila punti. Il malessere di Wall Street è diventato il pianto di Main Street: due terzi delle famiglie americane ha in portafoglio azioni o direttamente o indirettamente soprattutto con i fondi pensione. Il Financial Times è andato a Staten island, l’enclave repubblicana di New York che ha dato a Trump una maggioranza di 30 punti. Negozi vuoti, malcontento. Joy Ghigliotti vende giocattoli tutti fatti all’estero e lamenta “una minaccia esistenziale per il piccolo business”; poi aggiunge: “E lui giocava a golf”.

Il secondo campanello squilla dall’orologio del debito. L’indebitamento degli Stati Uniti è triplicato da quando nel 1989 ha cominciato a girare il cronometro di Times Square. Sono 36 mila 200 miliardi di dollari, 28.800 in mano a privati per lo più americani, il 30 per cento è all’estero. Prima è l’Unione europea, poi Giappone, Cina e Canada, tutte aree economiche colpite dai dazi. Nei giorni scorsi sono cominciate vendite consistenti che hanno portato i rendimenti dei titoli federali tra il 4 e il 5 per cento, oltre i Btp italiani, uno spread con il Bund tedesco di oltre due punti. Molte cessioni sono emerse in oriente, facendo pensare che si tratti non solo di Tokyo, ma della Cina che ha in portafoglio mille miliardi di dollari se consideriamo anche Hong Kong. Gli Stati Uniti hanno spalmato il loro debito in tutto il mondo garantendo che fosse un rifugio sicuro. Non lo è più, ma Trump vorrebbe che lo comprassimo tutto per aiutare gli americani a vivere sopra i loro mezzi, cioè consumare e non risparmiare. 

I due allarmi sono serviti a scoprire il primo bluff, non il secondo. La sospensione di 90 giorni non è una moratoria. Trump ha detto che con gli introiti dei dazi finanzierà il taglio alle tasse, quindi i dazi resteranno. Intanto rimangono in vigore i dazi già varati:  +10 per cento per tutti; +25 per cento sulle auto e le componenti; +25 per cento per Messico e Canada, così come acciaio e alluminio, poi c’è il 125  o 103 per cento (si stanno facendo i calcoli) sulla Cina. L’altra truffa è la reciprocità. Non esiste, perché vengono tenuti fuori i servizi dove gli Usa sono in surplus per 104 miliardi di dollari anche se non bastano a coprire i 156 miliardi di deficit mercantile. La Francia vorrebbe colpire quei cento miliardi in attivo con la web tax e torchiando la finanza a stelle e strisce che succhia i risparmi delle formiche europee.
“Venite a produrre qui dove non ci sono i dazi” dice Trump. E mette sott’accusa le barriere non tariffarie che pesano sulle aziende americane, i regolamenti, le norme restrittive. Su questo ha ragione, però gli ostacoli all’ingresso sono molti anche negli Stati Uniti. Prima di aprire una fabbrica si impiegano dai quattro ai cinque anni. La Hyundai ha impiantato uno stabilimento di batterie in Georgia, il terreno comprato dallo stato, si è reso disponibile nel 2021, l’inaugurazione è avvenuta nel marzo scorso, la produzione sarà avviata entro la fine dell’anno. Anche questo va messo sul piatto della bilancia, ma non basterà. La via maestra è rilanciare: basta dazi aveva proclamato Trump nel suo primo mandato, poi aveva imposto i dazi a Canada e Messico. Le trattative durarono tre anni. Oggi il mondo non ha più tanto tempo.

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