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Politica monetaria

Dazi, inflazione, conflittualità globale. Riusciranno la Fed e la Bce rimanere indipendenti?

Giancarlo Corsetti

Trovare soluzioni senza ledere il proprio ruolo. Per garantire la stabilità macroeconomica le banche centrali di Europa e America dovranno difendere la propria autonomia

Già a novembre, dopo le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, le politiche commerciali erano al centro delle discussioni nelle banche centrali. I dazi, infatti, hanno effetti complessi che la politica monetaria fatica a compensare. Quando un paese impone dazi, i beni importati diventano più costosi. Per le famiglie, questo vuol dire aumento dei prezzi al consumo e minor potere d’acquisto, quindi meno domanda. Per le imprese, costi più alti degli input produttivi importati si sommano alla riduzione della domanda interna. 

Nei paesi colpiti dai dazi (cioè quelli che esportano verso il paese che li impone), l’effetto è  recessivo. Se i dazi colpiscono solo certi settori, inoltre, possono generare forti squilibri settoriali e regionali. Gli effetti sull’inflazione sono differenziati: i dazi spingono in su i prezzi al consumo, ma la domanda più debole può abbassare i prezzi alla produzione. Negli Stati Uniti, i modelli macro mostrano che l’effetto di domanda prevale, ma in paesi più aperti al commercio, potrebbero prevalere i costi crescenti.

Già a novembre si temeva che le banche centrali si sarebbero trovate in difficoltà. Un aumento dei tassi per contrastare l’inflazione con politiche restrittive avrebbe peggiorato la situazione delle imprese e aumentato la disoccupazione. Sostenere l’economia con un taglio dei tassi avrebbe spinto ancora di più l’inflazione. Sulla base dei modelli di politica monetaria, in risposta a guerre commerciali la risposta efficiente consiste nello stabilizzare i prezzi alla produzione. Ma oggi l’inflazione vissuta negli ultimi anni pesa sull’opinione pubblica e la politica, e quindi l’esperienza recente alimenta una forte pressione politica.

Negli ultimi tempi, lo scenario si è complicato per varie ragioni. La principale è la portata e imprevedibilità della politica commerciale degli Stati Uniti. Dazi del 50-100 per cento hanno colto tutti di sorpresa. Sono livelli molto superiori rispetto alla storia recente, e quindi gli effetti potrebbero essere molto più gravi di quanto previsto dai modelli. Inoltre, regna confusione sulle vere intenzioni delle misure: si parla di obiettivi fiscali, reindustrializzazione, sicurezza nazionale e anche di minaccia per ottenere concessioni dagli altri paesi. Tuttavia, questi obiettivi sono contraddittori.

Per fare un esempio: se i dazi servono per aumentare le entrate fiscali, devono colpire beni la cui domanda non cambia con il prezzo (domanda inelastica). Se invece servono a favorire la produzione interna, devono colpire beni facilmente sostituibili (domanda elastica). Ma non si possono ottenere entrambi i risultati allo stesso tempo.

In questo momento, nessuno sa bene quali settori o paesi (esclusa forse la Cina) saranno colpiti, né con quale intensità o tempistiche. Non si tratta solo di “incertezza”: è una rottura del sistema internazionale costruito nel dopoguerra. Le imprese esitano a investire, le famiglie a spendere. Il risultato è un aumento del risparmio e un crollo degli investimenti: una forte spinta recessiva, che molti economisti prevedono nei prossimi mesi.

Nel brevissimo periodo, ci sono tuttavia effetti contrastanti: imprese e famiglie anticipano gli acquisti per evitare i futuri aumenti di prezzo. Per esempio, le esportazioni canadesi sono aumentate in modo spettacolare perché le imprese americane stanno accumulando scorte a ritmi elevatissimi. Va anche ricordato che l’amministrazione Usa ha promesso tagli fiscali importanti per imprese e ricchi. Anche se queste promesse oggi sembrano meno credibili, non è detto che siano completamente abbandonate. Quindi, gli ultimi dati dimostrano che l’economia Usa regge ancora, almeno nel mercato del lavoro, e la Fed resta cauta, senza avviare stimoli monetari. In altri paesi, però, la congiuntura sta peggiorando.

Infine, c’è preoccupazione per i mercati dei titoli di stato: negli Stati Uniti manca un piano di contenimento del debito, mentre in Europa aumentano le spese per la difesa. Le banche centrali potrebbero dover intervenire per evitare crisi nei mercati finanziari. Ma la domanda più profonda è: potranno le banche centrali rimanere indipendenti, con il compito di garantire la stabilità macroeconomica, in un contesto di crescente conflittualità internazionale? 

Il dibattito su come far interagire politica monetaria e politica fiscale, aperto dopo la crisi del 2008 e il Covid, non è mai stato risolto. E oggi trovare una soluzione senza ledere il ruolo guida delle banche centrali nella stabilizzazione finanziaria ed economica sarà ancora più difficile.
 

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