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Instabilità globale

La Cina sta guadagnando dal caos di Trump. Le prospettive anche per il mercato europeo

Mariarosaria Marchesano

Il paese asiatico beneficia dell’aumento delle esportazioni verso gli Stati Uniti, mentre l’Europa si prepara a nuovi scenari economici e commerciali.

Per il momento il surplus commerciale della Cina nei confronti degli Stati Uniti si è allargato e non ridotto. E’ uno degli effetti distopici della guerra tariffaria trumpiana, che ha spinto i fornitori americani a fare il pieno di scorte e così nel primo trimestre 2025 il valore delle esportazioni cinesi nel paese è aumentato del 4,5 per cento a 115,6 miliardi dollari, il 4,5 per cento rispetto a un anno fa mentre l’avanzo commerciale di Pechino nei confronti di Washington ha raggiunto 76,5 miliardi di dollari a fronte di circa miliardi dello stesso periodo del 2024 (quindi, quasi 7 miliardi in più). E, paradosso, il meccanismo dell’anticipo degli ordini, come spiega una ricerca del centro studi di Intesa Sanpaolo, potrebbe sostenere ancora l’export cinese nel secondo trimestre di quest’anno, verso l’America ma anche verso il resto del mondo, vista la sospensione temporanea dei dazi reciproci e di quelli sull’elettronica annunciate dalla Casa Bianca. Il balletto delle tariffe farà in modo che la Cina nel 2025 beneficerà ancora di una bilancia commerciale largamente positiva. Certo, il paese del Dragone accuserà il colpo e non è un caso se il governo di Pechino abbia rivolto un nuovo appello all’Unione europea per difendere insieme le regole del commercio globale e si mostra pronto a rafforzare la cooperazione con la comunità internazionale, come ha dichiarato ieri il portavoce del ministro degli esteri, Lin Jian.

 

Le consultazioni tra Pechino e Bruxelles si stanno intensificando nella consapevolezza reciproca che potrebbe arrivare un rallentamento della crescita per entrambe le aree. Si vedrà come l’Europa troverà il modo per collaborare evitando, come temono alcuni, l’invasione di prodotti e semilavorati cinesi. In questo momento, se si dovesse fare un bilancio di quanto è accaduto a partire dal 2 aprile, il giorno della Liberazione per Trump, ma anche l’inizio di un periodo di gravi turbolenze sui mercati finanziari, è che il tentativo di ristabilire l’ordine del commercio mondiale, avrà conseguenze a vari livelli. 

 

Uno studio di Cap Gemini Research Institute segnala che le grandi realtà europee e statunitensi si preparano a massicci investimenti di reindustrializzazione per fare fronte alla riconfigurazione delle catene produttive globali: nei prossimi tre anni le aziende intendono investire nel cosiddetto “friendshoring” per ridurre il rischio legato alle forniture. Quello che non è riuscito a fare la pandemia Covid riuscirà a fare Trump. La diversificazione degli approvvigionamenti, attraverso il potenziamento delle produzioni domestiche e la minore dipendenza dalla Cina, diventerà, secondo Cap Gemini, l’approccio seguito sulle due sponde dell’Atlantico. E pazienza se questo andrà a scapito dei rendimenti a breve termine che la globalizzazione riesce a garantire, e pazienza se tutto questo avrà costi ingenti (chi finanzierà la reindustrializzazione?). Si tratta, ovviamente, di una prospettiva che per svilupparsi ha bisogno di un periodo medio-lungo di anni durante il quale nuove alleanze commerciali potranno nascere. C’è anche, però, chi a tutto questo riposizionamento mondiale crede poco ritenendo che Trump dovrà ricucire la rottura con i mercati se non vuole giocarsi le elezioni mid-term tra un anno e mezzo. 

 

A preoccupare di più non sono tanto le Borse, dove gli aggiustamenti sono più facili sebbene le perdite provocate dal 2 aprile (ma anche da prima) hanno intaccato i risparmi degli americani che adesso hanno l’aspettativa di un recupero, ma le tensioni sui titoli di stato. Se i mercati azionari ieri sono rimbalzati, sia quelli europei che la borsa di New York, i rendimenti dei Treasury continuano a essere sotto pressione: 4,8 per cento per la scadenza a 30 anni e 4,4 per cento per i decennali. Troppo elevati per un paese che ha 36 mila miliardi di dollari di debito pubblico e ha una spesa per interessi arrivata a 1000 miliardi all’anno e che cresce fuori misura. E’ su questo terreno che Trump sta giocando la sua credibilità, nel rapporto schizofrenico con gli investitori internazionali che finanziano il debito americano, di cui una buona fetta viene a scadenza quest’anno. America First, che trova i suoi fondamenti ideologici in documenti che, a leggerli si capisce che avevano in qualche modo messo in conto una correzione dei corsi azionari, non avevano previsto la possibilità di una crisi del debito sovrano americano. Siamo ancora lontani, ma continuando di questo passo, potrebbe anche arrivare.

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