
Piero Antinori (Ansa)
il colloquio
Non solo dazi, ad Antinori preoccupa la sfiducia tra Italia e America
Il marchese del vino italiano ricorda le vendemmie di guerra e la conquista degli Stati Uniti, tra timori per i dazi e fiducia nella terra. “Alla fine decide il Padreterno, non la politica”, dice Piero Antinori
Come un grappolo, a ogni vite è appesa un’immagine, un pezzo di vita, un profumo. Marchese Antinori, si ricorda la sua prima vendemmia? “Certo che me la ricordo. Ero bambino, in una delle nostre tenute. Noi piccoletti che correvamo su e giù per i filari. Per cogliere l’uva usavamo il falcetto, capitava di tagliarsi e allora i lavoranti ci consigliavano i rimedi della nonna”. Piero Antinori, il marchese Piero Antinori, è un gentile signore fiorentino di 86 anni che ancora si diverte troppo a coltivare vigne e produrre vino per passare la notte sveglio con l’incubo dei dazi di Trump, anche se quell’incubo c’è. “Sa che sono stato uno dei primi italiani ad andare a vendere il vino in America? Erano i primi anni Settanta, e fino ad allora in America del vino italiano non si conosceva quasi niente. Mai avrei pensato che un giorno la mia famiglia sarebbe arrivata ad avere negli Stati Uniti tre grandi aziende vinicole”. La scoperta dell’America, enologicamente parlando. “Andai là perché cercavamo nuovi mercati. Fu un’idea di mio padre, che si mise d’accordo con un distributore locale. Atterrai a New York e mi resi conto che gli americani bevevano pochissimo vino. Avevano i fiaschi di Chianti, quelli dei fumetti, ma era Chianti di bassa qualità e a comprarlo erano soprattutto gli immigrati italiani”. Per il resto poco o nulla, anche se di dazi c’era già memoria, perché l’età del proibizionismo non era così lontana nel tempo. “Erano vini prodotti sul posto in maniera artigianale, in qualche modo, da famiglie di immigrati italiani che avevano fatto fortuna ai tempi del proibizionismo aggirando le norme dell’epoca”. Ogni barriera è sempre fatta per essere scavalcata, un bisogno trova sempre la maniera di essere soddisfatto. “Poi il proibizionismo finì ma i consumatori americani non erano pronti per i nostri vini. Anche perché, diciamocelo sinceramente, negli anni Settanta non è che i nostri vini fossero questa gran cosa. Molto meglio i francesi”. E allora si innestò un processo virtuoso, quello che adesso ha portato i vini italiani a essere i più consumati negli Stati Uniti, e parliamo di vini di qualità alta o medio-alta, minacciati da dazi che stanno dando più di qualche preoccupazione alla nostra industria enologica. “Una cinquantina di anni fa abbiamo tutti iniziato a investire più sulla qualità del prodotto che sulla quantità, e il vino è diventato uno dei fattori di successo dell’italianità nel mondo. Un vanto, un biglietto da visita. Siamo migliori dei francesi, che pure fanno buone cose. Negli Stati Uniti siamo i più apprezzati”.
Nonostante gli 86 anni Piero Antinori vola negli Usa due volte all’anno a visitare le aziende del gruppo. “Ci vado in febbraio e in giugno, resto una quindicina di giorni e controllo da vicino che tutto proceda come deve procedere. Poi in autunno non mi muovo perché ho la vendemmia qui e non posso lasciare. Faccio quello che mi diverte, alle seccature ci pensano le mie figlie”. La vendemmia, appunto, come quella con i falcetti durante la guerra, con i soldati americani che vagavano per le campagne toscane, i tedeschi che scappavano e ogni tanto sbucava qualche carro armato degli alleati. Dopo la guerra per tanto tempo i bambini si divertivano a cercarne i ruderi nei campi mentre i buoi aravano i filari sotto il sole. Sempre gli americani nel destino, anche se a quel tempo gli americani erano amici. Ora non è più così? “Sa che cosa mi preoccupa più dei dazi? Questo clima di sfiducia reciproca tra italiani e americani, che non avevo mai visto. Il possibile antiamericanismo degli europei e l’antieuropeismo degli americani. Firenze è piena di americani, qui nella nostra cantina del Bargino abbiamo 40 mila visitatori all’anno e la maggior parte di quelli stranieri sono americani. Io dico: perché dobbiamo seminare il seme della discordia tra due popoli che sono andati sempre d’accordo? C’è un motivo?”. Per adesso nessuno l’ha capito bene. Che cosa pensa che abbia in testa Trump, marchese? “Cambia di ora in ora, non facciamo neppure in tempo a preoccuparci per bene che è tutto diverso. In ogni caso la sfiducia che si è creata è un elemento certamente negativo. L’instabilità in economia e nei commerci prima o poi si paga sempre”. Ma la quota del dieci per cento di tariffa sarebbe gestibile? “Diciamo che il dieci per cento sarebbe il minore dei mali. Si tratterebbe di caricarselo un po’ per uno. Noi, l’importatore, il distributore, il venditore al dettaglio, ma insomma ce la si potrebbe fare. Vediamo come andrà a finire”. E nel viaggio a Washington della Meloni, marchese, ripone qualche speranza? “Che le devo dire… Io non sono del gruppo della Meloni, a dire il vero non l’ho neppure votata, ma riconosco che in politica estera fino a ora la presidente si è mossa bene, mi pare abbia una sua solidità. Nel complesso mi ispira fiducia. Dice di avere un certo rapporto con Trump, vedremo. Certo è che in tema dazi qualsiasi conquista deve avvenire nel contesto europeo. Sarei pronto a fare qualche sacrificio in più come imprenditore purché non si ottenga qualche sconticino solo per l’Italia. Il nostro orizzonte deve restare l’Europa”.
Anche perché l’industria del vino con il resto dell’Europa ha molto a che fare. A volte a costo di fare accordi con i rivali francesi. “Dal punto di vista commerciale ognuno fa la sua partita, ma sul tema delle regole europee, dalle etichette in là, bisogna stare assieme. Comunque ne abbiamo passate tante, passerà anche questa”. Non resta che guardare con fiducia alla prossima vendemmia. Come quella con i falcetti? “Ma la vendemmia che più mi ricordo è quella del ’67, la prima di cui avevo la responsabilità all’interno dell’azienda. Qui vicino, a Tignanello. Per fortuna fu una bella annata, e mio padre fu molto contento”. La bella annata, è tutto lì. “Già, la bella annata”. Perché l’agricoltore lo sa, da sempre, da quando coglieva i primi grappoli d’uva correndo giù per i filari. “Dazi al dieci o al venti, Unione europea o Cina, alla fine decide il sole o la pioggia, il vento o la nebbia, il freddo o il caldo”. Decide il Padreterno. “Meglio lui che Trump”.