
Scott Bessent (Ansa)
La guerra commerciale
I trumpiani non sono affatto tranquilli sui loro titoli di stato
La Casa Bianca studia una norma per aiutare le banche a comprare i Treasury, nel tentativo di contenere la crisi di fiducia nel debito americano. Le turbolenze sui mercati spingono verso interventi straordinari per evitare un aumento insostenibile dei costi di rifinanziamento
A Washington si sta studiando una deregulation bancaria per andare in soccorso del mercato del debito americano. E’ quanto emerge da alcune dichiarazioni del vicesegretario al Tesoro, Michael Faulkeder, che confermano quanto elevata sia la preoccupazione della Casa Bianca per la svendita a più riprese di Treasury che si è verificata nei giorni scorsi. Secondo Anthony Willis, investment manager di Columbia threadneedle investments, società di gestione patrimoniale americana, “è importante capire quali siano stati i fattori che hanno portato gli Stati Uniti ad annunciare la sospensione dei dazi. L’Amministrazione sembrava a suo agio con la flessione dei mercati azionari, ma le ripercussioni sui Treasury sono state preoccupanti e si sono combinate con un ulteriore calo del dollaro”.
In realtà, già a gennaio i rendimenti dei titoli decennali erano più alti, ma la velocità degli altalenanti annunci di Trump ha fatto scattare l’allarme. “Treasury e dollaro, tradizionalmente percepiti come beni rifugio”, prosegue Willis, “non sono più considerati tali, data l’imprevedibilità dell’attuale politica governativa statunitense. Gli investitori hanno cercato alternative e i titoli di stato tedeschi hanno registrato performance particolarmente positive, mentre il prezzo dell’oro ha raggiunto nuovi massimi storici”. Mentre gli investitori internazionali fanno i conti con una crisi di fiducia nei confronti degli Stati Uniti, Trump parla di dazi, nel linguaggio a lui più congeniale, ma non di Treasury, il suo vero nervo scoperto, quello che gli fa talmente male da averlo indotto ad annunciare la tregua commerciale il 9 aprile. C’è, però, chi vicino a lui ha ben chiara la questione. Si racconta che il segretario al Tesoro, Scott Bessent, abbia impiegato più di un’ora per spiegare a Trump, nel volo da Miami a New York che hanno fatto insieme nei giorni precedenti, che era necessario fare un passo indietro.
La ragione è molto semplice: gli Stati Uniti hanno bisogno di rifinanziare il debito ma non ai tassi crescenti di questo periodo perché sarebbe un bagno di sangue per le casse pubbliche. Quest’anno scadono 8 mila miliardi di obbligazioni del Tesoro americano, in più c’è da coprire circa 2 mila miliardi di deficit e da pagare oltre mille miliardi di interessi. Insomma, vanno rifinanziati a stretto giro circa 11-12 mila miliardi di dollari di debito su un totale di 36 mila miliardi. Ovviamente, Bessent ha tentato di minimizzare le turbolenze sui Treasury dicendo che va tutto bene e che nel caso di necessità – leggi una crisi del debito sovrano – ci sarebbero tutti gli strumenti per intervenire. Ma che cos’è questa se non un’ammissione che le cose non stanno andando come si sperava, che America First ha un impatto sul mercato del debito americano, anche maggiore di quello avuto su Wall Street, che forse la Casa Bianca non aveva calcolato? Mentre Bessent smussa, minimizza, ma lavora dietro le quinte, il vicesegretario al Tesoro, Faulkeder, ha spiegato l’altro ieri che è allo studio un cambio delle regole per le banche che acquistano titoli di stato. In pratica, si cercherà di rendere meno oneroso per questi operatori detenere in portafoglio i Treasury riducendone l’impatto sul patrimonio. Le regole erano state rese più severe dopo la grande crisi finanziaria del 2008 seguita al crac di Lehman Brothers, ma questo ha ridotto la capacità delle banche di assorbire debito americano. La grande svendita di T-Bond avvenuta a cavallo del 9-12 aprile deve avere convinto Washington che è il momento di voltare pagina e su questo sta trovando un allineamento di istituzioni e operatori finanziari. La Federal Reserve e gli altri enti di vigilanza sono pronti, infatti, ad approvare le modifiche che avrebbero l’effetto di rendere molto più flessibili le regole di vigilanza per le grandi banche avvicinandole a quelli adottati dalle realtà minori (ricordate, però, il tracollo delle medio-piccole banche californiane dovuto essenzialmente all’assenza di regole prudenziali per gestire gli alti e bassi delle obbligazioni in portafoglio?).
Ma in questo momento il sistema sta facendo quadrato attorno a un’emergenza e come ha osservato Jamie Dimon, il ceo di Jp Morgan, “non sarà un sollievo per le banche, sarà un sollievo per i mercati”. Gli aggiustamenti, infatti, consentiranno ai grandi istituti di intervenire in periodi di stress come quelli attuali. Ed è un argine per attutire sul mercato del debito l’impatto di politiche commerciali protezionistiche e del possibile aumento di spesa pubblica per supportare il ritorno delle catene industriali in America. Per Dimon le grandi banche mondiali possono dare il loro contributo solo se le normative che sono state sviluppate per prevenire una nuova crisi finanziaria globale vengono ridimensionate. Quella di cui si sta discutendo è una modifica d’emergenza, già fatta durante la pandemia (da marzo 2020 ad aprile 2021), ma chissà se poi resterà più a lungo e, comunque, è molto indicativa della crescente tensione intorno alle politiche trumpiane. Del resto, le turbolenze sui Treasury si sono solo un po’ attenuate: ancora ieri i rendimenti dei titoli a 30 anni non erano inferiori al 4,8 per cento, quelli dei decennali al 4,3 per cento e c’era grande apprensione per una nuova asta in programma in serata per obbligazioni ventennali. Ora, quello che si vorrebbe fare è tentare una de-escalation.