
Foto Epa, via Ansa
Per un pugno di dollari
Tre motivi per cui nessuno si fida più dei titoli di stato americani. I rischi sono globali
Gli effetti a catena della perdita di fiducia nei confronti del mercato americano
Dopo l’“Independence day” del 2 aprile scorso, il dibattito di politica economica si è focalizzato principalmente sui danni provocati dai dazi americani e su come rispondervi. In realtà, le conseguenze per l’economia mondiale sono di una dimensione ben più ampia. All’origine c’è l’elevato debito pubblico dei paesi avanzati e in via di sviluppo, che è stato accumulato negli ultimi anni grazie ai bassi tassi d’interesse e alla crescita economica sostenuta dalla globalizzazione.
La punta dell’iceberg è il debito pubblico statunitense, che è cresciuto in modo spropositato negli ultimi venti anni, passando dal 60 per cento nel 2005 al 100 per cento del prodotto lordo alla fine dello scorso anno, per effetto di un disavanzo pubblico che in media ha superato il 6 per cento all’anno. Questi dati sono noti da tempo, ma non hanno preoccupato più di tanto gli investitori internazionali che continuavano ad avere fiducia nel dollaro, segnatamente nei titoli di stato americani, come bene rifugio. Tale fiducia si è basata su alcuni fattori di forza dell’economia americana, quali il dinamismo imprenditoriale, l’apertura e la liquidità del sistema finanziario, l’indipendenza della Riserva federale e la politica di difesa del valore esterno del dollaro, sintetizzata nella famosa frase di Robert Rubin, segretario al Tesoro del presidente Clinton, “un dollaro forte è nell’interesse degli Stati Uniti”, che scoraggiava qualsiasi atteggiamento speculativo. Le politiche messe in atto o annunciate dalla nuova Amministrazione stanno incrinando questa fiducia, non solo all’estero ma negli stessi Stati Uniti.
Per almeno tre motivi.
Il primo è legato all’effetto dei dazi sulla crescita e sull’inflazione americana, almeno nel breve-medio termine. Da un lato, un rallentamento economico riduce le entrate fiscali e fa salire il disavanzo pubblico. Dall’altro, l’aumento dei prezzi mantiene elevati i tassi d’interesse sui titoli di stato e appesantisce l’onere del debito. Senza crescita economica, il risanamento delle finanze pubbliche statunitensi diventa più arduo, non solo perché la spesa pubblica è già su un livello relativamente basso (12 punti percentuali di pil inferiore a quella europea) ma anche perché i tagli fiscali adottati in passato vengono considerati politicamente irreversibili. L’Amministrazione Trump vorrebbe peraltro aggiungerne altri.
Il secondo motivo della perdita di fiducia nasce dalla volontà di rimettere in discussione la politica del dollaro forte, che secondo l’Amministrazione Trump sarebbe all’origine del disavanzo commerciale e della deindustrializzazione americana. Questa inversione incoraggia gli investitori, in particolare quelli internazionali, a vendere i titoli di stato americani in loro possesso, il che deprezza a sua volta il dollaro e fa salire i tassi d’interesse a lungo termine, come si è visto nei primi giorni di aprile.
Il terzo motivo è l’intenzione, finora solo dichiarata, di penalizzare i detentori esteri di titoli americani, sia imponendo l’allungamento delle scadenze sia attraverso controlli sugli afflussi di capitali dall’estero, come proposto ad esempio da Michael Pettis in un articolo della scorsa settimana sul Financial Times.
La perdita di fiducia nei titoli di stato americano può produrre effetti a catena sull’intero sistema finanziario internazionale. L’aumento dei tassi d’interesse si tradurrebbe immediatamente sul costo del debito degli altri paesi, imprimendo una restrizione finanziaria e aggravando le rispettive dinamiche del debito. Si accentuerebbe la volatilità dei mercati, in particolare per quel riguarda i rapporti tra le varie monete, con un costo aggiuntivo per l’economia reale. L’instabilità rischia di minare ulteriormente la fiducia, con effetti a catena che si possono ripercuotere sulle singole istituzioni finanziarie e sui paesi, come si è verificato durante la crisi scatenata dal fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008.
Dato il ruolo centrale della valuta statunitense nel sistema globale, una perdita di fiducia nei confronti del dollaro avrebbe ripercussioni sistemiche, di cui chi è al centro del ciclone rischia di non rendersi pienamente conto. Gli studiosi di Storia economica ricorderanno le politiche messe in atto dal presidente Nixon all’inizio degli anni Settanta, con la sospensione della convertibilità del dollaro nel 1971, l’imposizione di dazi sulle importazioni e il controllo sui prezzi e sui salari. Queste misure avviarono una fase di grande instabilità dell’economia globale, con ripercussioni negative sull’Europa, che richiese oltre un decennio prima di essere risolta attraverso la drastica restrizione monetaria impressa da Paul Volcker. Le condizioni erano in parte diverse rispetto alla situazione attuale. La Cina era una economia chiusa… e il debito pubblico americano era poco più del 30 per cento del prodotto lordo.