Marinus van Reymerswaele, “Il cambiavalute e sua moglie”, olio su tavola, 1539 

E rimetti a noi i debiti

Chi implora e chi riscuote. Storia universale del denaro prestato, dallo stigma dell'usura ai record delle grandi potenze

Maurizio Stefanini

Il debito, tra condanna morale e necessità economica, ha segnato la storia delle civiltà e oggi raggiunge livelli record globali, coinvolgendo stati, aziende e cittadini. Paradossalmente, i paesi più indebitati non sono i più poveri, ma spesso i più ricchi

"E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, recita il Padre Nostro. “Abolire il dovere di pagare i debiti mina alla base le regole della convivenza umana”, ammoniva Appio Claudio secondo Tito Livio. Dilemma più vivo che mai… 2000 anni dopo, il debito mondiale è infatti arrivato al suo massimo di tutti i tempi: 320.000 miliardi di dollari, secondo l’ultimo rapporto dell’Institute of International Finance. 100.000 miliardi solo di debito pubblico, ma poi c’è anche il debito delle aziende private e quello delle famiglie. E qua, si pensa subito al Terzo Mondo. “Cancella il debito” fu il famoso rap di Jovanotti al Festival di Sanremo del 2000. Proprio sul Foglio, Vincino lo emendò in una vignetta: “Ti prego ministro Visco / cancella il mio debito col fisco”, tanto a ricordare che non c’erano solo i soldi dovuti dal sud del mondo. Da una parte l’Onu chiede in continuazione “sospensioni” per i paesi più indebitati. Dall’altra, le stesse Nazioni Unite tolgono senza pietà il diritto di voto ai membri morosi. Ultima a essere punita la Bolivia, sospesa per un arretrato di 772.000 dollari corrispondenti a due anni di quote. Lo ha reso noto a Erbol Radio Diego Pary, già ministro degli Esteri tra 2018 e 2019, e poi ambasciatore al Palazzo di Vetro fino alle sue dimissioni, a fine anno, proprio per questo motivo. “Non potevo rimanere nelle Nazioni Unite, partecipare alle riunioni e non essere in grado di prendere decisioni, perché la Bolivia non ha pagato la quota che corrisponde al biennio 2024-2025”. Sono in mora anche l’Afghanistan e la Repubblica Democratica del Congo, devastata dalla guerra. E poi Guinea-Bissau, São Tomé e Príncipe e il Venezuela di Maduro, che come la Bolivia si sono ritrovati con regimi che sono peggiori di una guerra. 


Attenzione, però! Sul punto, qualche contraddizione sta in fondo nello stesso Vangelo. “Mutuum date nihil inde sperantes” è la versione della Vulgata del Discorso della Montagna di Luca 6,35: “Concedete prestiti senza sperarne nulla”. Nel “Papato socialista”, saggio che nel 1950 diede inizio la sua fama di storico a soli 25 anni, Giovanni Spadolini ne fece il caposaldo di un cattolicesimo sociale che si sviluppa dalla Rerum novarum di Leone XIII, e che avrebbe dovuto portare a un punto di incontro fra cattolici e socialisti. Ovviamente, poi con una ampia gamma di reinterpretazioni, dall’economia sociale di mercato alla teologia della liberazione. Ma già nel Medioevo le parole di Gesù avevano portato alla condanna ecclesiastica di ogni forma di interesse, assimilato all’usura anche sulla base di quanto Aristotele aveva scritto nell’Etica nicomachea. “Nummus nummum parere non potest”, “Il denaro non può generare denaro”. E Dante, infatti, gli usurai li mette all’Inferno. 


Ma anche l’ebraismo è tra le religioni che richiedono di condonare i debiti con scadenza regolare: sia per prevenire diseguaglianze sistematiche tra vari gruppi sociali; sia per impedire la comparsa di prestatori come professione. Il Levitico prescrive che ogni “sette volte sette anni” si tenga un anno giubilare nel quale le terre vanno restituite agli antichi proprietari e fatte riposare, schiavi e prigionieri vanno liberati, e appunto i debiti vanno rimessi. E per il Deuteronomio addirittura ogni sette anni “ogni creditore che abbia diritto a una prestazione personale in pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto”.  Secondo lo storico Paul Johnson, però, il prestito di “denaro alimentare” era comune nelle civiltà mediorientali già cinquemila anni prima di Cristo. E nel Vangelo di Matteo c’è la parabola dei talenti, in cui il padrone, di ritorno da un viaggio, dopo aver lodato i due servitori che investendo hanno fatto fruttare i cinque e i due talenti dati loro fino a raddoppiare il capitale, se la prende poi col terzo che per paura di rimetterci il suo lo ha invece nascosto sotto terra. “Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti”. “E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole”, dice poi la Lettera ai Romani. 


Senza un sistema creditizio che funzioni da lubrificante, in effetti, nessun sistema economico può funzionare. Nel II secolo Plutarco, scrivendo “Sul rigettare la pratica dell’usura”, finisce infatti per esaltare il valore morale della povertà,  mentre nel 1787 Jeremy Bentham pubblica una “Difesa dell’usura” proprio nel secolo in cui l’economia politica diventa una scienza. Di fatto, il diniego morale era stato superato con vari sotterfugi. Nel mondo cristiano, in particolare, prima lasciando l’attività del prestito a interesse agli ebrei, che tanto all’inferno sarebbero andati comunque: e gli stessi ebrei non avevano verso i “gentili” i divieti a tutela di loro correligionari. Senza contare che, secondo la Torah, l’osservanza del Giubileo si applicherebbe soltanto quando il popolo ebraico dimora in Terra di Israele ripartito nelle rispettive Tribù. Pertanto, dopo l’esilio della Tribù di Ruben, della Tribù di Gad e della Tribù di Manasse non sarebbe più applicabile. Poi, comunque, l’Europa cristiana si inventò il sistema della banca e della società anonima, che un’anima da dannare non la aveva. Gran finale, si decise che usura non è ogni interesse, ma solo un suo eccesso. Che è poi quello che c’è oggi nei codici. L’islam, che pure parte da una condanna analoga, ha cercato di elaborare l’escamotage alternativo di associare creditore e debitore al rischio di impresa. Ne vengono formule affini al leasing che alla fine non sono tecnicamente interesse, ma finiscono per far pagare di più.


Ma “il miglior modo per giungere a una transazione è sempre quello di lasciar che i debiti si accumulino”, ha scritto Guy de Maupassant. “Se devi alla banca 100 dollari è un tuo problema. Se invece devi 100 milioni di dollari, è un problema della banca”, è una frase attribuita a Jean Paul Getty. Studioso rigorosissimo ma al contempo anche inguaribile buontempone, che frequentando la storiografia anglosassone si era aggiunto un “M.”  inesistente al nome apposta per fare il verso all’uso statunitense, Carlo Cipolla fu un grande storico dell’economia autore di una quantità di libri, di cui forse il più famoso è “Allegro ma non troppo”:  un saggio su pepe, vino e lana come elementi determinanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Poi un altro sulle “Leggi fondamentali della stupidità umana”. Libri che in realtà erano stati scritti come scherzo per gli amici, e che furono pubblicati quando si accorse che gli amici li stavano facendo girare in edizioni fai da te. Benché dal suo assioma “la probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della persona stessa” ricavasse l’idea che ci sono stupidi anche tra i Premi Nobel, nel 1985 si fece intervistare da Thomas J. Sargent, che sarebbe stato poi Nobel per l’economia nel 2011. Con lui Robert M. Townsend, a sua volta per due volte vincitore, nel 1998 e nel 2012, della Frisch Medal della Econometric Society. Ne venne un “Viaggi e avventure della moneta” che il Mulino ha ora per la prima volta pubblicato in italiano, e che è pieno di notazioni su come il mondo civile si sia sempre basato sui debiti, e su come i debiti abbiano sempre avuto difficoltà a essere ripagati. 


A Roma, ad esempio, “secondo la teoria più diffusa, le monete venivano coniate solo dallo stato per lo stato; cioè, quando allo stato serviva denaro per ripagare i debiti, batteva moneta con il metallo estratto dalle miniere di sua proprietà”. “Di sicuro a Roma, durante il I secolo d.C., vi furono crisi finanziarie di breve durata, caratterizzate da elevati tassi di interesse, scarsità di moneta in circolazione e da una fortissima caduta dei prezzi della terra, che la gente non riusciva più a vendere nel tentativo di procurarsi la liquidità necessaria a estinguere i propri debiti”. Anche se, “per quanto ne sappiamo il governo di Roma non ha mai avuto debito pubblico. Imponeva tributi ed emetteva moneta”. Un debito pubblico tremendo lo aveva invece la monarchia di Carlo V, malgrado sul suo impero non calasse mai il sole e malgrado il massiccio accesso alle ricchezze del Nuovo Mondo. Ma prima ancora, era stata l’Inghilterra a fare un colossale default: “Per le spese necessarie all’inizio della guerra contro la Francia. In cambio c’era una promessa di rimborso basata sulla concessione dei diritti doganali e le entrate ad essi associate. In un certo senso, il re d’Inghilterra prometteva di ripagare quei prestiti con le entrate della corona negli anni futuri. In realtà, ricevette troppi soldi e finì per dichiarare bancarotta, annunciando di non poter più ripagarli”. Non appena la notizia del botto di Edoardo III arrivò a Firenze, “ci fu una corsa agli sportelli da parte delle persone che avevano depositi in banca. I depositi erano a vista e rivolevano indietro i loro soldi”. E allora “Edoardo III interruppe i pagamenti, accusando i fiorentini di richiedere interessi troppo alti (come oggi gli argentini e i brasiliani accusano gli americani di applicare interessi troppo elevati, e così via) e incolpandoli quindi di cattiva gestione. I fiorentini contrattaccarono cercando di dimostrare che le accuse erano false.

Alla fine fu raggiunto un accordo per un rimborso posticipato, ma ciò provocò l’indebolimento del mercato internazionale e di quello fiorentino, con il risultato di una corsa agli sportelli. Le banche non avevano i soldi per restituire il denaro depositato e dovettero dichiarare fallimento”. Delle due più grandi banche fiorentine, i Peruzzi falliscono nel 1343 per la somma colossale di 600.000 fiorini; i Bardi li seguono nel 1346 con un botto ancora più clamoroso: 900.000 fiorini. Assieme le due compagnie bancarie hanno perduto l’1 per cento dell’intera massa monetaria circolante in Europa. Due secoli dopo, sono invece i banchieri genovesi a dovere affrontare il problema spagnolo. Cipolla ricorda che ormai erano nati strumenti finanziari più avanzati: “Le obbligazioni, chiamate juros – juros e asientos – attraverso le quali raccoglievano denaro, che poi davano in prestito, praticamente da tutta Europa. Fecero quindi prestiti al re di Spagna a fronte di juros, titoli che avevano un buon mercato perché garantivano un rendimento elevato. Il loro rendimento veniva pagato con le entrate della corona, l’argento che arrivava dalle Americhe o le tasse. Ma per circa cinque volte tra il 1557 e il 1620 il governo spagnolo dichiarò di non poter far fronte al debito. Tuttavia, non vi fu mai un ripudio completo del debito ma solo degli interessi. La corona spagnola sosteneva, cioè, di essere in bancarotta perché le facevano pagare interessi troppo alti e quindi il prestito doveva essere rinegoziato, e di fatto lo era, a un tasso di interesse più basso”. Simili e continue diatribe latino-americane ne sono una eredità culturale? Però l’Inghilterra è invece diventata nei secoli successivi una garanzia di affidabilità finanziaria, mentre la Spagna degli Asburgo ambiva lei al ruolo di superpotenza che hanno oggi gli Stati Uniti. 


Ma, appunto, altro che Terzo Mondo! Gli stessi Stati Uniti hanno oggi oltre 36,2 trilioni di dollari di debito nazionale. A dicembre 2023, il debito pubblico totale ammontava a 33.100 miliardi di dollari, ossia pari a circa il 129 per cento del pil, e a circa 6,7 volte le entrate fiscali. Il debito pubblico detenuto da privati era pari a 26.500 miliardi di dollari, circa il 99 per cento del pil nazionale. Un peso di circa 102.000 dollari sulle spalle di ciascun cittadino americano, capace di far impallidire persino i 46.000 euro pro capite degli italiani. Ad affossare ancora di più gli animi ci pensano le previsioni del Congressional Budget Office, secondo cui nei prossimi 20 anni il rapporto debito/pil si attesterà a quota 139 per cento. Un dato che spingerebbe gli Stati Uniti verso un indebolimento di proporzioni greche. Con la necessità di ridurre il deficit federale dall’attuale livello del 7,2 per cento del pil a circa il 3 per cento, gli stessi Usa si trovano dunque a dover vendere una quantità di debito che il mondo non vuole comprare, da cui l’idea pazzotica di Trump di sostituirlo con i dazi. O forse anche peggio: a capo del Comitato dei consulenti economici della Casa Bianca è Stephen Miran, che un articolo dello scorso novembre aveva teorizzato l’approccio protezionistico sulla base dell’idea che l’attrattività del dollaro sarebbe un peso piuttosto che un privilegio esorbitante, facendo ampliare i deficit di bilancio americani per soddisfare la domanda dei paesi stranieri. Quindi, prima si fa crollare il dollaro, meglio è!


Ma tutta l’economia mondiale è basata oggi sui debiti. I debiti degli stati, che perfino la Germania oggi acconsente ad aumentare; e il debito degli individui, invitati a comprare a debito anche per mantenere il livello di consumo pur con la perdita di impiego tra ristrutturazioni e delocalizzazioni continue. E’ partita da qui la crisi del 2008, ma il debito privato sul pil negli Stati Uniti ha mediato il 213,01 per cento dal 1995 al 2023, raggiungendo un massimo storico del 239,20 per cento nel 2020 e un minimo record del 168,20 per cento nel 1997. Era diminuito al 216,50 per cento nel 2023 rispetto al 224,50 per cento nel 2022, ma secondo i dati della Federal Reserve, nonostante l’aumento dei tassi d’interesse, gli americani nel 2023 si sono rivolti ai servizi di credito, aumentando l’indebitamento per circa 148 miliardi di dollari, superando il record di 17.000 miliardi di dollari: 3.000 miliardi in più della cifra contabilizzata durante il periodo pre Covid. Una richiesta di credito privato attribuita alla lotta che le famiglie stanno affrontando contro la perdita del potere d’acquisto provocata dall’inflazione: in altre parole i tassi d’interesse aumentano per tenere sotto controllo i consumi e le famiglie si indebitano per mantenere invariato il loro tenore di vita. A riprova di questo fatto, un aumento delle vendite al dettaglio dello 0,4 per cento. Un capitolo a parte sono i debiti che 40 milioni di laureati si trovano a dover ripianare durante la loro vita lavorativa: 1.600 miliardi di dollari, pari al 10 per cento dell’economia e dell’intero pil italiano. Biden ne aveva fatto un punto fondante del suo programma, ma Trump ha bloccato quel Public Service Loan Forgiveness che consentiva di cancellare una parte del debito studentesco per coloro che si impiegano nell’amministrazione pubblica o in gruppi no profit. Lo aveva firmato George W. Bush nel 2007, con un ampio consenso tra democratici e repubblicani. Trump, con un ordine esecutivo, ha stabilito che non possono goderne coloro che lavorano in organizzazioni che presentano “propositi sostanzialmente illegali”.


Ma anche l’italiano medio è a rischio. Finsight, l’osservatorio di Go Bravo sull’indebitamento, ha analizzato oltre 8.000 profili di persone a rischio sovraindebitamento e ha delineato l’identikit dell’italiano a rischio: uomo, sposato, cinquantenne, residente al Nord, con un debito medio di 28.000 euro. Il sovraindebitamento è più diffuso tra gli uomini (71 per cento) che tra le donne (29). Il livello di indebitamento aumenta al crescere dell’istruzione, e i laureati hanno il debito medio più alto (circa 31.000 euro). Molise (oltre 32.000 euro), Valle d’Aosta (31.000) e Puglia (30.000) le regioni con il debito medio più alto. Per numero di casi, in cima c’è la Lombardia (17 per cento), seguita dal Lazio (12 per cento) e dalla Campania (8 per cento).  Ma in Italia, comunque, il debito privato è solo il 151 per cento del pil. Sorpresa: paesi che lo hanno basso sono il Messico, con il 54,43, e la Polonia, col 102. Altra sorpresa: peggio degli Usa stanno il Lussemburgo con 449, la Svezia con 307, la Svizzera con 270. Insomma, a fare più debiti sono oggi non i poveri, ma i ricchi. Possiamo definirlo “teorema di Maupassant-Getty”?

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