
(Ansa)
economia di scala
Se lo stato incentiva a restare piccoli, le piccole imprese muoiono
La gestione manageriale familiare ha retto le pmi per decenni. Ora però c'è bisogno di altro altro: servono private equity, voucher e innovazione. È una sfida di economia industriale difficile, ma è tempo di discutere di politiche concrete
La questione dimensionale delle imprese italiane è riassumibile in pochi numeri: il 61 per cento degli occupati totali lavora in piccole imprese in Italia, in Spagna sono il 53 per cento, il 44 in Francia e il 40,6 in Germania. I valori sono anche più evidenti nel settore manifatturiero, dove solo il 29 per cento degli occupati lavora in grandi imprese in Italia, rispetto al 62 per cento in Germania. Negli anni Settanta e Ottanta, anni di crisi della grande impresa, questa struttura produttiva era un fattore di competitività del sistema-Italia. La nostra manifattura era specializzata in produzioni a medio o basso contenuto tecnologico, dove la mancanza di scala era egregiamente compensata dalle esternalità di agglomerazione – i famosi distretti industriali: il tessile di Prato, la metallurgia nelle valli bresciane, le piastrelle di Sassuolo, il mobile imbottito della Murgia. Era un modello basato su piccole imprese possedute e gestite da bravi imprenditori-artigiani con una forte presenza della famiglia nella gestione e finanziate da credito bancario. I nostri imprenditori-artigiani producevano beni standardizzati di ottima qualità e a costi competitivi. L’innovazione era principalmente incorporata nei macchinari acquistati, piuttosto che fatta dalle imprese stesse. Le capacità erano apprese sul campo, a discapito dell’istruzione formale: pochi avevano titoli di studio superiore.
Quel modello è andato in crisi alla metà degli anni Novanta perché il mondo è cambiato e, nel nuovo contesto, la piccola dimensione è diventata uno svantaggio. La competizione di prezzo con prodotti standardizzati non è più sostenibile: piuttosto, per competere nei mercati internazionali è necessario creare prodotti che si differenziano dai concorrenti in termini di qualità, contenuto tecnologico, marchi. Non basta più saper gestire molto bene il capannone. Serve progettare, innovare, fare marketing, entrare in mercati esteri sempre più distanti: attività che richiedono competenze specialistiche che non si possono acquisire solo sul posto di lavoro. E’ cambiata anche la natura del progresso tecnologico: non più l’adozione di macchinari specifici, ma di un complesso di tecnologie dell’informazione e della comunicazione che pervadono ogni aspetto dell’organizzazione d’impresa. Queste tecnologie richiedono gestione aziendale strutturata e manageriale. Tutto il contrario di come funzionano le piccole imprese, organizzate in modo informale, senza l’utilizzo di dati, in cui tutto si decide nella testa dell’imprenditore. Ciò riduce l’efficacia delle tecnologie, che risultano meno produttive in imprese senza struttura manageriale. In un mio lavoro recente ho stimato che la minor qualità delle pratiche manageriali delle imprese italiane rispetto a quelle tedesche spiega buona parte della minor adozione di tecnologie dell’informazione, della minor crescita della produttività e dei salari, e del brain drain: piccole imprese poco digitalizzate e poco innovative creano poche opportunità di crescita professionale per i nostri giovani, che vanno a cercarle altrove.
Quali sono le politiche che possono favorire una transizione verso una struttura industriale più adatta ai tempi? La risposta non è per niente ovvia. Ci sono vincoli alla crescita economica completamente causati dalla legislazione. Ad esempio, basta la volontà politica per aprire il mercato dei taxi, creando posti di lavoro e facendo scendere il prezzo del servizio. La dimensione delle imprese non rientra fra questi, in quanto non può essere decisa per decreto. Lo stato deve prima di tutto evitare politiche che favoriscano il nanismo delle imprese. Nella formulazione di ogni provvedimento a sostegno delle piccole imprese, la prima domanda dovrebbe essere: questo provvedimento aiuterà le imprese con potenziale di crescita a sfruttarlo, o fornirà piuttosto incentivi a rimanere piccoli? Alcuni provvedimenti del governo in materia fiscale vanno nella seconda direzione, ad esempio quelli che offrono una tassazione molto di favore a chi rimane piccolo. Sarebbe preferibile prevedere agevolazioni nella fase iniziale della vita di un’impresa, rimuovendole quando un’impresa matura. La normativa fiscale sulla successione d’impresa rappresenta un ulteriore incentivo al nanismo. Attualmente, sono escluse dall’imposizione le successioni o donazioni d’impresa ai discendenti, a condizione che questi ne mantengano la gestione per almeno cinque anni. Questo meccanismo, se da una parte tutela la continuità familiare, dall’altra scoraggia l’immissione di competenze manageriali esterne alla famiglia che costituisce un’opportunità di crescita, se non addirittura di sopravvivenza, per molte imprese. Ma il ristretto ambito della famiglia controllante non garantisce la presenza di capacità adeguate. Anche l’utilizzo del golden power non deve diventare uno strumento che dissuade indiscriminatamente investitori esteri che, nella maggior parte dei casi, apportano capitali e competenze di cui il paese beneficia.
Queste sono le priorità in termini di ciò che andrebbe evitato. E quanto al fare? In termini di politica industriale attiva, il rapporto Draghi – al quale ho contribuito – avanza alcune proposte concrete che non hanno trovato spazio in un dibattito rimasto perlopiù confinato ai princìpi generali. Si tratta invece di proposte che meriterebbero una discussione approfondita. Fra queste, misure per favorire lo sviluppo del private equity, che si sta affermando come leva per il salto dimensionale di molte realtà imprenditoriali con potenziale di crescita inespresso; per migliorare la qualità delle pratiche manageriali delle piccole imprese, come corsi di formazione mirati agli imprenditori e voucher per dotare l’impresa di competenze specifiche in termini di innovazione, digitalizzazione, internazionalizzazione; per rafforzare e far crescere – anche aggregandole – le piccole imprese nelle catene di fornitura, la cui fragilità e scarsa propensione all’innovazione costituiscono uno svantaggio competitivo anche per le grandi imprese loro clienti. E’ una sfida di economia industriale difficile, ma è tempo di aprire un dibattito che vada al di là delle affermazioni di principio, per discutere di politiche concrete, informate dalla crescente massa di risultati che la letteratura economica mette a disposizione.