
Dazi, indietro tutta?
Trump calma i mercati su Fed e de-escalation con la Cina, ma tutto è ancora possibile
Le giravolte del presidente americano su dazi e guerra alla banca centrale a stelle e strisce placa le borse. Ma adesso cosa succede? Trump non ha ancora deciso cosa fare, si aspetta un segnale da Xi Jinping che, invece, aspetta godendosi lo spettacolo
Licenziare Jerome Powell? E chi l’ha mai detto. Mega dazi alla Cina? Non scherziamo. Nel giro di 24 ore Donald Trump è stato in grado di compiere un paio di giravolte e Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo. Ieri in apertura l’indice Dow Jones è balzato in su di ben 900 punti, il Nasdaq ha recuperato il 4 per cento come il Russell 2000, mentre lo S&P 500 3 punti. Anche le borse europee sono ripartite, ci si attende lo stesso per quelle asiatiche. La paura è finita oppure è la conferma che siamo tutti sull’autobus guidato dal più squinternato dei fratelli Marx? L’ultima capriola l’ha anticipata il Wall Street Journal: un alto funzionario della Casa Bianca ha fatto trapelare che i dazi imposti alla Cina dovrebbero essere ridotti in modo sostanzioso del 50 o anche 65 per cento rispetto ai livelli stratosferici già annunciati (fino al 145 per cento con fantasiose punte del 3.521 per cento sui pannelli solari). I dazi resteranno comunque altissimi e nocivi per la stessa economia americana.
Trump ha ammesso che non saranno certo zero, ma ci sarà una riduzione, insomma siamo in clima di de-escalation. Martedì il segretario al Tesoro Scott Bessent, parlando a un evento organizzato dalla JP Morgan, ha detto che la situazione si sta facendo “insostenibile”. Lo stesso Bessent ha messo il presidente di fronte alla realtà anche sulla Federal Reserve. Powell non può essere licenziato, bisognerà attendere la prossima primavera, intanto cominciano i sondaggi per trovare un sostituto. In ogni caso, la banca centrale non può farsi dettare la politica monetaria dalla Casa Bianca gli ha ricordato il segretario al commercio Howard Lutnick, a meno di non sovvertire la legge che risale al 1935 nel pieno della Grande Depressione, con la quale venne istituito il Federal Open Market Committee che regola i tassi d’interesse. Le intemerate di Trump avevano messo in crisi anche il dollaro. Il rischio è che la guerra commerciale diventi una guerra valutaria e la corsa dell’oro è una spia dell’incertezza che regna sui mercati.
Le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale, pubblicate anch’esse martedì, parlano chiaro: la crescita mondiale è in frenata mentre aumenta la probabilità di una propria recessione. In Messico è già arrivata (il pil segna - 0,3 per cento quest’anno secondo le stime del Fmi), rallenta l’Europa, l’obiettivo politico di una crescita del 5 per cento in Cina non verrà raggiunto (il pil dovrebbe aumentare del 4 per cento), e sugli Stati Uniti cade una vera doccia fredda: il prodotto lordo quest’anno aumenterebbe dell’1,8 per cento, un punto in meno rispetto al 2024. I dazi, scrivono gli economisti del Fmi, sono uno shock negativo per il paese che le impone, in quanto le risorse sono riassegnate verso la produzione di beni non competitivi, con un perdita di produttività aggregata, minore attività e costi di produzione e prezzi più elevati. Meno crescita più inflazione esattamente il contrario di quel che ha promesso The Donald. E’ presto per parlare di una svolta, anche perché sempre ieri il segretario al Tesoro Bessent ha detto, a margine di un intervento pubblico, che il presidente Trump non ha offerto alla Cina una riduzione unilaterale dei dazi, raffreddando immediatamente i mercati. Insomma, Trump non ha ancora deciso cosa fare, si aspetta un segnale da Xi Jinping che, invece, aspetta immobile godendosi lo spettacolo.
Ma “il re pazzo”, come Martin Wolf sul Financial Times ha definito il presidente degli Stati Uniti, è sotto un tiro incrociato. I grandi finanzieri di Wall Street anche quelli che come Jamie Dimon, gran capo della JP Morgan, e Larry Fink di BlackRock gli avevano concesso credito con tutte le cautele del caso, hanno detto chiaro e tondo che la guerra dei dazi è catastrofica. Powell tiene dritta la barra della banca centrale. Bessent fa da messaggero e passa più tempo a New York che a Washington. I big boss dell’industria e la stessa famiglia Ford che controlla il gruppo dell’auto hanno presentato il conto. E poi c’è anche la precipitosa ritirata di Elon Musk: lascia il fantomatico Doge che doveva tagliare le teste e le spese dello stato federale (ben duemila miliardi di dollari ora dice che ne ha risparmiati 150), per tornare agli affari, dopo aver perso 137 miliardi di dollari in borsa solo con il crollo delle azioni Tesla che oggi valgono il 40 per cento in meno rispetto al dicembre scorso. Big Money batte Big Tech, anche se siamo solo al primo tempo. Forse come “buona uscita” l’imprenditore sudafricano avrà nuove copiose commesse statali (vorrebbe costruire uno scudo attorno agli Stati Uniti tipo l’Iron Dome israeliano), ma la sua tanto proclamata missione è fallita e forse non è mai nemmeno cominciata.
Trump adesso ripete che lui vuole il negoziato, anche se non riesce a dire su quali basi visto che cambia idea (e percentuali) ogni giorno. La partita più importante è con la Cina, e a Pechino studiano parola per parola, virgola dopo virgola le esternazioni del Commander in Chief. L’Unione europea non intende restare indietro. Ursula von der Leyen spera di agganciare Trump sabato prossimo quando saranno entrambi a Roma per le esequie di papa Francesco. Giorgia Meloni vorrebbe fare da trait-d’union. I colpi di scena non mancano davvero.