
(foto EPA)
La battaglia della Fed
L'assalto di Trump contro Powell è fallito. Ma comunque avrà conseguenze sui mercati
Trump rinuncia a rimuovere il presidente della Fed: mercati sollevati, ma il tentativo svela i rischi di pressioni politiche sulla banca centrale e i pericoli di una politica monetaria troppo espansiva
La madre di tutte le battaglie dichiarate dall’Amministrazione Trump nei suoi primi 100 giorni - dopo quella dei dazi, quella agli immigrati e quelle contro studi legali, università, giudici e autorità regolatorie – è finita con un armistizio dopo solo 48 ore. Con il gran sollievo dei mercati finanziari. Il tentativo di rimuovere il presidente della Federal Reserve, la banca centrale, e di nominare qualcuno di fiducia al suo posto, è stato abbandonato, almeno per ora. Anche in questo caso si trattava di un grave errore. Per vari motivi. Il primo è che, molto probabilmente, il tentativo di licenziare Jay Powell sarebbe comunque fallito, perché la Riserva federale ha uno statuto indipendente per cui il presidente, nominato per quattro anni, non può essere rimosso.
Trump forse sperava in un parere favorevole da parte della Corte suprema, ma le recenti pronunce di quest’ultima a suo sfavore l’hanno probabilmente scoraggiato. Anche perché Powell aveva dichiarato apertamente la sua intenzione di resistere, facendo ricorso al supporto di studi legali privati. Powell ha peraltro un’arma non banale a sua disposizione, quella di rimanere nel board della Riserva federale come semplice membro, fino alla scadenza del suo mandato nel gennaio 2028, anche dopo essere decaduto da presidente tra poco più di un anno. Come ha già fatto l’ex vicepresidente Barr. Ciò limiterebbe lo spazio di manovra per rinnovare la carica al vertice della banca centrale.
Il secondo motivo è che la Banca centrale americana, come tutte le altre, è un organo collegiale che decide a maggioranza. Il presidente è il portavoce e organizza le riunioni per prendere decisioni che deve poi spiegare ai cittadini e ai mercati. Cambiare il presidente della Banca centrale non basta per cambiare politica monetaria, come vorrebbe Trump: cioè tassi d’interesse più bassi per far crescere di più l’economia. Nelle sue critiche a Powell Trump si è spinto addirittura a tessere le lodi della Bce, che negli ultimi dieci mesi ha tagliato i tassi d’interesse di ben 175 punti, mentre la Fed li ha ridotti di soli 100.
Il terzo motivo è che nonostante la Riserva federale si distingua dalla maggior parte delle altre banche centrali – come la Bce, la Banca d’Inghilterra o della Banca del Giappone – per avere due obiettivi distinti, ossia la stabilità dei prezzi e la piena occupazione, non può permettersi di implementare politiche monetarie che perseguano solo uno dei due obiettivi, mettendo l’altro a repentaglio. Nella situazione attuale, caratterizzata da un tasso di disoccupazione sui minimi storici, una politica monetaria più espansiva rischia di far ripartire l’inflazione ben oltre il 2 per cento. Ciò potrebbe far salire i tassi d’interesse a lungo termine, aggravando l’onere sul debito pubblico. Un eventuale taglio dei tassi d’interesse deve essere compatibile, anche in una fase di rallentamento economico, con un ancoraggio delle aspettative d’inflazione intorno al 2 per cento, per evitare che i tassi a lunga risalgano. La recente riluttanza mostrata dalla Fed nel ridurre i tassi d’interesse è dipesa dalla necessità di verificare l’impatto delle misure prese dall’Amministrazione sull’inflazione.
Il quarto motivo per cui l’attacco a Powell è un errore è che, comunque, la banca centrale americana prima o poi ridurrà i tassi d’interesse, soprattutto se il rallentamento economico si accentuerà. E’ una questione di mesi. I mercati già anticipavano ulteriori tagli a partire dell’estate. Mettere sotto pressione la Fed per qualche mese può essere solo controproducente.
Infine, la storia economica ricorda già un simile errore, commesso dal presidente Nixon nel 1970 con la nomina di Richard Burns a presidente della Fed, che sotto l’influenza politica condusse una politica monetaria troppo espansiva che alimentò l’inflazione per molti anni. Nessun altro presidente della Fed, nemmeno quello che verrà nominato da Trump, vorrà essere ricordato come un secondo Burns. L’euforia con la quale i mercati hanno accolto la rinuncia a sostituire Powell conferma che era una battaglia sbagliata. Il rimbalzo è stato addirittura superiore alle aspettative, riflettendo forse la convinzione che d’ora in poi il presidente Trump terrà conto delle reazioni dei mercati nelle sue decisioni politiche. Paradossalmente, ciò potrebbe destabilizzare ulteriormente i mercati stessi. In effetti, se il presidente è pronto a fare marcia indietro ogniqualvolta i mercati crollano, la reazione di questi ultimi potrebbe essere inizialmente più graduale e circospetta, nell’aspettativa di un rapido cambiamento di direzione. Ciò significa che il cambio di direzione sarà ritardato e che gli effetti degli errori commessi saranno più duraturi.