
(Ansa)
Le dimissioni di Klaus Schwab e il tramonto dell'Uomo di Davos
L’uscita di scena del fondatore del World Economic Forum, tra accuse di corruzione e molestie, segna l’appannamento del globalismo al tempo di Trump
L’uomo di Davos è ricco, colto, politicamente corretto, cosmopolita, poliglotta, in altre parole un uomo globale. Ma pur sempre un uomo, pronto a scivolare lungo la china viscida dei suoi peccati. Così è successo anche a Klaus Schwab, colui che ha inventato l’uomo di Davos, o meglio ha dato alla figura umana emblema del lungo ciclo “mercatista” e liberoscambista, un palcoscenico sulle Alpi svizzere proprio dove Thomas Mann aveva ambientato la sua “Montagna incantata”. Il Berghotel, quel sanatorio a mezza costa, era stato scelto dallo scrittore tedesco come teatro del tragico conflitto culturale che ha lacerato buona parte del Novecento: la crisi della borghesia e del liberalismo, l’irrompere del fanatismo mistico-rivoluzionario, l’impotenza dell’umanesimo razionalista. Schwab ha messo in scena tutt’altro incanto, basato sulle magnifiche sorti e progressive del capitalismo vittorioso. Adesso si è dimesso dal suo World Economic Forum grazie al quale si sarebbe arricchito fraudolentemente; il manager che apparecchiava per i potenti viene travolto da una raffica di accuse: imbrogli, frode, corruzione e le immancabili molestie sessuali. E’ la fine di Davos? Si è chiesta la radio svizzera, e ha concluso che non sarebbe nemmeno un male. Ma il circo Davos, quel che era stato e aveva rappresentato, era già finito da tempo.
Nato a Ravensburg in Germania nel 1938, ma cresciuto nella repubblica elvetica, Schwab ingegnere, economista, professore a Ginevra, colpito dalla lettura della “Sfida americana” del politologo francese Jean-Jacques Servan Schreiber, organizza nel 1971 a Ginevra un simposio di manager europei con il patrocinio della commissione di Bruxelles: respingere o raccogliere la sfida americana? La risposta è raccoglierla. Nasce così il World Economic Forum che debutta formalmente nel 1987 come organizzazione senza fine di lucro, anche se è un’operazione commerciale come ha spiegato Jacques Attali. Fa capo a una fondazione finanziata dagli associati, circa mille imprese con fatturato superiore ai 5 miliardi di euro. La quota di adesione varia in base al livello di coinvolgimento, e allo status di partner strategici, settoriali e regionali. Gli inviti, rivolti originariamente solo a manager e imprenditori, sono stati estesi ai leader politici sin dal gennaio 1974, quando la crisi petrolifera ha scosso gli equilibri mondiali. Il Forum è stato il luogo per affrontare anche serie crisi internazionali: la “dichiarazione di Davos” del 1988 ha contribuito a chiudere il conflitto tra Grecia e Turchia, nel 1989 ha ospitato il primo incontro tra ministri della Corea del Nord e del Sud, nel 1992 è toccato al Sud Africa con il meeting tra Mandela, de Klerk e Buthelezi, due anni dopo dopo si sono stretti la mano Shimon Peres e Yasser Arafat. Durante la pandemia il World Economic Forum ha sviluppato una proposta per superare i periodi di instabilità globale attraverso l’alleanza tra governi, imprese e organizzazioni della società civile: il Grande reset per un mondo più “resiliente, equo e sostenibile”, grazie anche alle nuove tecnologie della “quarta rivoluzione industriale” sulla quale Schwab ha scritto un libro di successo. Insomma, proprio il paradigma messo sotto attacco dalla nuova destra. Quest’anno gli uomini di Davos hanno assistito in diretta all’insediamento di Donald Trump e il presidente americano in collegamento ha annunciato l’attacco a uno dei loro pilastri: il libero scambio.“Venite a produrre in America, altrimenti pagherete i dazi”, ha esordito e giù bastonate all’Europa e alla sua scelta strategica: “Il green deal è un grande bluff”.
Il World Economic Forum è stato il luogo di scambio, di valori e talvolta di favori, per l’élite globale che dagli anni ’50 in poi si è formata anche attraverso una rete di salotti e think tank: dal Bilderberg, nato nel 1954 ad Amsterdam su iniziativa di David Rockefeller, alla Commissione Trilaterale fondata anch’essa da Rockefeller nel 1973 quando per la prima volta venne discussa la “crisi della democrazia”; e ancora il Consiglio Atlantico, il Gruppo dei 30 altra creatura della Rockefeller Foundation, la Open Society Foundation di George Soros. A differenza da tutti questi club chiusi, Davos è sotto la luce dei riflettori, un evento mediatico prima ancora che politico ed economico. Dalla sua tribuna sono stati lanciati messaggi al mondo che si stava appiattendo secondo la metafora di Thomas Friedman, o alla “storia così come l’abbiamo conosciuta” destinata a finire, come scriveva Francis Fukuyama nel 1992. Il ritorno della peggior storia in Europa o il dividersi del mondo in aree e continenti alla deriva come placche tettoniche, ha rimesso in discussione anche Davos.
L’anno scorso Schwab è stato accusato da suoi ex impiegati: ha licenziato donne incinta, usato i dipendenti “come un bancomat”, lui e sua moglie si sono arricchiti a spese dell’organizzazione e poi ancora molestie, razzismo, gestione autoritaria. Un po’ come Joseph Blatter alla Fifa. Tutto è partito da una lettera anonima. Smentite e querele non sono bastate, il danno d’immagine era già irrimediabile. Tanto che Schwab si è dimesso e tre giorni fa lo stesso Forum ha aperto un’inchiesta. Davos resisterà al crollo del suo modello e alla triste caduta del fondatore? Si sta cercando un sostituto, ad interim il ruolo verrà ricoperto da Peter Brabeck-Letmathe, già presidente del Consiglio di amministrazione di Nestlé. Il successore verrà scelto da una commissione ad hoc. Tra i nomi che circolano spicca quello di Philip Hildebrand, ex numero uno della Banca Nazionale Svizzera e oggi vicepresidente di BlackRock. Ma c’è anche Christine Lagarde. Il futuro, tuttavia, non è una questione organizzativa, ma culturale e politica. Dal loro palco tra le nevi alpine gli uomini di Davos si sono sentiti prima rimproverare poi attaccare apertamente, sia dall’esterno sia dall’interno. L’onda populista è stata colta e sfruttata da nuove élite con l’intenzione di sostituirsi all’élite globale non solo nella gestione del potere, ma nella concezione del mondo. Un attacco ben più potente e insidioso delle manifestazioni no global o delle predicazioni tardo marxiste.