
Foto LaPresse
l'indagine
La santa globalizzazione su cui Bergoglio non ha mai speso una parola buona
E’ un peccato che Papa Francesco, avversario dei “nazionalismi chiusi e aggressivi”, abbia sempre considerato la globalizzazione un sottoprodotto dell’egemonia americana. Perché profitti e mercati aperti non moltiplicano i pani e i pesci ma hanno moltiplicato le persone che non muoiono di fame, che vivono meglio e più a lungo
Lo Spirito Santo non fa ai cardinali un esame di economia, men che meno di liberalismo, e quindi ha poco senso immaginare un “programma” economico per il successore di Papa Francesco. O anche più genericamente augurarsi che parli di mercato e di imprese in modo diverso da come faceva lui. Si può, semmai, esprimere un rimpianto. E’ un peccato che Bergoglio, il primo Pontefice non europeo, a suo modo un esempio della “globalizzazione” della più antica istituzione sovranazionale tutt’ora in attività, non abbia mai speso per la globalizzazione una parola buona. A maggior ragione se si pensa che Papa Francesco è stato un avversario dichiarato dei “nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi”, mentre questi ultimi riprendevano slancio proprio nei dodici anni del suo pontificato. Nell’enciclica pandemica Fratelli tutti, Francesco per esempio attacca il “dogma di fede neoliberale” (scelta lessicale un po’ inconsueta, per il vescovo di Roma) per cui “il mercato da solo risolverebbe tutto”. Per inciso, messa in questi termini è un’affermazione che nessuno sottoscriverebbe: nel paese di sogno dei liberisti più radicali, non ci sarebbe il welfare state ma le sue funzioni verrebbero assolte da fondazioni private e associazioni caritatevoli. O da società di mutuo soccorso, patronati, cooperative, opere di carità.
Parole simili il Pontefice le ha usate a più riprese, pienamente fedele al se stesso più giovane, cresciuto nell’Argentina peronista di cui aveva assorbito la cultura (come, sia detto sommessamente, Papa Montini e una generazione di intellettuali e politici cattolici italiani avevano appreso l’economia alla scuola del corporativismo).
Nella Fratelli tutti più che altrove, però, c’è qualcosa che stride. In quell’enciclica, Francesco risponde ai neo-nazionalisti, difende un’ideale di solidarietà e mutuo rispetto, e tuttavia rifiuta l’idea che le società umane siano tenute assieme anche dagli scambi economici, dai commerci, da relazioni improntate alla logica dell’interesse. Il Pontefice lamenta che “aprirsi al mondo” sia espressione ormai appropriata “dall’economia e dalla finanza”. “Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i paesi”. Il mercato si porta appresso “una cultura unificata”, che dissolve le identità più deboli e trasforma le persone in meri “consumatori o spettatori”.
“Per un gesuita argentino di tendenza nazional popolare, gli Stati Uniti erano Sodoma, gli eterni nemici” (Loris Zanatta, Bergoglio. Una biografia politica). La globalizzazione era, agli occhi del Papa come a quelli di molti, né più né meno che un sottoprodotto dell’egemonia americana. Fa impressione che tante persone intelligenti credano che in tutto il mondo si beve Coca Cola in conseguenza di un progetto di dominio, e non semplicemente perché alla gente piace. Gli Usa sono il paese più ricco al mondo, è naturale che l’uscita dalla povertà sia anche, in una certa misura, una “americanizzazione”, come lo era già nell’Italia del dopoguerra. Il bello di arricchirsi è avere consumi più simili a quelli dei ricchi. Che significa, tanto per cominciare, fare tre pasti al giorno.
La globalizzazione non è solo i panini di McDonald’s o all’altro estremo le grandi bottiglie di SuperTuscan che arrivano nei ristoranti americani e che temiamo non ci arriveranno più, a causa dei dazi di Donald Trump. La pizza è un alimento totalmente internazionale, i paesi in cui si mangiano più pizze pro capite sono paesi ricchi, la Norvegia, gli Stati Uniti e il Canada, noi arriviamo quarti, ma il sesto, oggi, è la Cina. Imperialismo gastronomico tricolore? La prima cosa che le persone desiderano, appena il loro reddito glielo consente, è mangiare un po’ meglio. Pensate al ragazzo o alla ragazza che, quando arriva lo scatto di stipendio, porta a cena fuori la famiglia, e moltiplicatelo per milioni di individui. Per quanto quasi il 90 per cento dei cinesi siano intolleranti al lattosio, le cose buone suscitano curiosità, e desiderio, ovunque.
Poche cose parlano di più della nostra cultura di quel che arriva sulla nostra tavola. Pochissime sono più spietate, nel rivelare il benessere o la povertà delle persone.
Nell’anno in cui sono nato, il 1981, l’offerta calorica pro capite (che non misura le calorie effettivamente consumate, ma quelle disponibili) era attorno alle 2.246 a livello globale, 3.310 in Europa, 3.105 in Nord America, 2.233 in Africa e 2.215 in Asia. Nel 2022 era cresciuta a 2.930 in Asia e 2.530 in Africa. Per un abitante medio del pianeta, 2.957. Perché in Asia le calorie disponibili a un singolo individuo sono di più che in Africa? Una delle ragioni è che l’Asia è pienamente entrata nel circuito degli scambi internazionali, al punto che oramai è considerata l’opificio del mondo, mentre i paesi africani (anche a causa del protezionismo agricolo occidentale) restano più marginali. L’offerta calorica pro capite in Cina passa da 2.165 nel 1981, quando in Italia erano 3.450, a 3.454 nel 2022 (in Italia, 3.667). In Cina, nel 2000 il 20 per cento dei bambini sotto i 5 anni era rachitico, oggi il 5 per cento. Il rachitismo e la denutrizione dei più piccoli sono problemi che l’occidente ha fortunatamente dimenticato.
Nel 1900, la speranza di vita alla nascita di un essere umano era 32 anni. Oggi è 71. E’ chiaro che permangono forti differenze regionali, e che nascere in Svizzera (aspettativa di vita alla nascita: 84 anni) è un caso incredibilmente più fortunato che venire al mondo in Somalia (58). Ma la speranza di vita è più che raddoppiata, mentre la popolazione resta concentrata nei paesi più poveri. Mai nella storia gli esseri umani sono venuti al mondo con la prospettiva di campare tanto a lungo.
Se siamo d’accordo che questa è una buona notizia, vale la pena chiedersi come ci siamo arrivati.
La storica dell’economia Deirdre McCloskey ragiona sul tema nella sua Trilogia borghese (Virtù borghesi, Dignità borghese, Eguaglianza borghese) appena pubblicata in Italia dalla Silvio Berlusconi Editore. Al centro dei lavori di McCloskey c’è la domanda che dovremmo farci tutti, pontefici inclusi. Come è stato possibile tutto questo?
Il concetto di “crescita economica” è sostanzialmente estraneo al vocabolario dell’umanità fino a metà Ottocento. Il mondo che abbiamo abitato per il grosso della nostra storia era descritto alla perfezione dal reverendo Malthus. Ogni tanto i raccolti vanno meglio, per diversi motivi (non ci sono guerre, si è finito di contare i morti dell’ultima pestilenza, una nuova tecnica accresce la produttività agricola) l’economia sembra volgere al bello, la popolazione cresce, poi interviene qualcosa che riequilibra mezzi di sussistenza e bocche da sfamare, dal momento che le seconde aumentano più rapidamente dei primi.
A un certo punto, usciamo dalla trappola malthusiana. Il cambiamento più rilevante riguarda la quota della popolazione che sopravvive ai primi anni di vita: per lungo tempo, in Europa, una donna aveva in media due figli che raggiungevano l’età adulta, pur sfornandone molti di più. Attorno al 1900, in Italia un nato ogni quattro moriva nei primi cinque anni d’età – in un paese nel quale l’alimentazione non solo dei più poveri andava poco oltre la polenta.
Tutt’oggi, si stima che all’incirca il 10 percento della popolazione mondiale sia malnutrito, i luoghi più sfortunati sono l’Africa subsahariana (23 per cento) e il subcontinente indiano (13 per cento). C’è una certa corrispondenza con la quota della popolazione mondiale che vive sotto la soglia della povertà estrema (oggi rivista dalla Banca Mondiale in 2,15 dollari al giorno): l’8 per cento. Ma nel 1990 era il 30 per cento della popolazione mondiale ad arrabattarsi con meno di un dollaro al giorno. Nel mentre, siamo aumentati di numero: da 5,2 miliardi a 8 miliardi.
Nel nostro paese, e più in generale nell’Europa occidentale, la mortalità infantile comincia a ridursi a inizio Novecento, per poi calare drasticamente dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi un bambino che muore è un caso di malasanità, fino a un secolo fa non faceva notizia.
Da una parte, siamo portati a dare tutto questo per acquisito. E’ difficile capire quanto sia straordinario qualcosa che per noi è la normalità. Dall’altra, quando ci interroghiamo sulle cause tendiamo a individuare poche decisioni visibili, di solito ascrivibili agli attori pubblici.
Senz’altro, ci viene spiegato, in questo miglioramento c’entrano le politiche d’igiene, attraverso le quali si mette ordine nei nuovi contesti urbani, che l’industrializzazione aveva fatto lievitare. Conta la crescente scolarizzazione, che obbligandoli a studiare protegge i giovanissimi dalla fatica fisica del lavoro e offre loro una vita sedentaria ma sicura. Contano i progressi della medicina, per cui un’appendicite non è più una condanna a morte. Ma pesa ancora di più il miglioramento generalizzato del tenore di vita, che innesca un cambiamento delle abitudini. Una dieta più sana e un maggiore apporto calorico, tanto per cominciare. Il più banale dei lussi quotidiani, la possibilità di lavarsi regolarmente: che però non era affatto scontata, prima che tutte le case avessero l’acqua corrente e poi il bagno ciascuna nel proprio perimetro. Il chimico francese Nicolas Leblanc, a fine Settecento, e il chimico belga Ernest Solvay, a fine Ottocento, avevano sviluppato gli omonimi “processi”, i quali consentono la sintesi industriale del carbonato di sodio. Tempo qualche lustro e il sapone, che sino ad allora era stato un consumo di nicchia, riservato agli strati più abbienti della popolazione, diventa un prodotto accessibile a tutti. A inizio Novecento si comincia a produrre anche sapone secco, l’antesignano dei moderni detersivi. Questi nuovi consumi rivoluzionano le condizioni di salute degli individui e dei gruppi cui appartengono. La produzione su scala industriale di sapone e detergenti non si è limitata a migliorare il nostro odore.
La scuola e la sanità pubblica non sono mai esistite, finché l’economia non è riuscita a esprimere una capacità di crescita tale da consentirne il finanziamento. C’è una forte correlazione fra spesa pubblica e livello di sviluppo di un paese non perché la spesa pubblica renda ricchi (come sembrano credere alcuni), ma perché una spesa pubblica elevata è qualcosa che si possono permettere solo i ricchi.
Torniamo al cibo e al sapone. Sembra di parlare di robetta, in un mondo che s’accapiglia su giganteschi investimenti in intelligenza artificiale e che vede e rilancia sui punti di pil per la spesa in difesa. Missili e supercomputer calamitano la fantasia dei giornalisti, e forse anche quella dei pontefici, per esempio Bergoglio in un messaggio al World Economic Forum invitava a “dirigere e governare i processi” dell’innovazione tecnologica, come dire a sterilizzarne i contraccolpi attraverso la politica industriale. Ma cibo e sapone fanno parte della nostra quotidianità, sono prodotti esposti sugli scaffali del supermercato, ricchi e poveri si differenziano ormai forse per le fragranze e per la disponibilità a comprare un bagnoschiuma griffato oppure no, le loro abitudini igieniche tendono ad assomigliarsi sempre di più. E’ stata l’opera meritoria di qualche ministero della Sanità, a convincere le persone a lavarsi più di frequente? Sono stati sacerdoti e missionari, a impartire istruzioni precise su una dieta più bilanciata?
Le politiche d’igiene sono molto importanti, ma è difficile sottostimare l’impatto dell’invenzione della carta igienica (commercializzata per la prima volta negli Stati Uniti a metà Ottocento) nel ridurre la trasmissione oro-fecale delle malattie. Man mano che i paesi si arricchiscono, cominciano a usare la toilet paper, anziché dei surrogati. Le persone lo fanno a causa dei persuasori occulti della pubblicità commerciale, o al contrario grazie a una capillare opera di educazione, perché ci sono state campagne d’informazione sul tipo di quelle per lavarsi le mani cantando Happy birthday to you ai tempi del Covid? Semplicemente, c’era (è esistito, in questo caso, da che siamo su questa terra) un bisogno; delle persone (il cui lavoro è coordinato da individui specializzati proprio in quello, chiamati “imprenditori”) cercano dei modi nuovi per rispondervi; uno dei loro tentativi ha un esito più soddisfacente dei precedenti; costoro, e soprattutto chi li coordina, ne traggono guadagno, che però è poca cosa davvero rispetto a quanto quel prodotto accresce il benessere di tutti.
Per carità, i sermoni hanno una loro funzione. In generale, tuttavia, queste prassi non sono state inculcate a forza a una popolazione riottosa. Nuove merci hanno conquistato l’immaginazione delle persone, sono diventate di moda, aziende le più diverse si sono scatenate col marketing per convincerci a comprare il detersivo che lava più bianco. Detto in altri termini: a realizzare questo impressionante miglioramento delle condizioni di vita non è stata l’azione consapevole di alcuni buoni samaritani, impegnati a combattere l’ingiustizia. Le riflessioni di Papa Francesco sull’economia internazionale erano in piena continuità con quelle di Paolo VI, il Pontefice degli anni della decolonizzazione.
Per Papa Montini, la povertà nel mondo grida vendetta al cielo, le ingiustizie diffuse richiedono l’impegno dei cattolici, ma siccome l’azione dei singoli, pur benintenzionati, rischia di rivelarsi velleitaria, bisogna fare appello alle energie degli stati, queste grandi macchine per la gestione del bene comune. Ciò significa far leva su una redistribuzione dai paesi ricchi ai paesi poveri, tramite aiuti internazionali che dovrebbero riequilibrare uno sviluppo economico iniquo, nel quale gli ex colonizzatori continuano a banchettare sulla pelle degli ex colonizzati. Oggi, i 33 paesi ricchi riuniti nel Development Assistance Committee dell’Ocse donano qualcosa come lo 0,33 per cento del loro pil complessivo. Le Nazioni Unite da tempo spingono affinché si arrivi a un valore medio dello 0,7 per cento del pil impiegato in aiuti allo sviluppo. Gli elettori pensano che una quota consistente della spesa pubblica finisca in nazioni diverse dalla propria, ma negli Stati Uniti, che sono in termini assoluti il primo “donatore” al mondo, finisce in foreign aid l’1 per cento del bilancio federale.
Anche sommando alle donazioni degli stati quelle dei privati, che come i governi sono spesso influenzati dalle esigenze e dalle emozioni del momento (buona parte degli aiuti vengono stanziati in risposta a emergenze o disastri naturali), non si va molto lontano. A spingere fuori dall’indigenza quel miliardo di persone che ne è uscito negli ultimi trent’anni non sono state le buone intenzioni. Sono state al contrario relazioni autointeressate fra individui che non hanno molto in comune, tranne una cosa: il desiderio di migliorare la propria condizione. Ciò non è necessariamente in contrasto col desiderio di migliorare pure la vita del loro prossimo. Gli scambi questo sono: gli individui barattano denaro e beni e servizi, perché sono convinti che comprando un certo oggetto, o simmetricamente che svolgendo un certo lavoro, staranno meglio di prima. Gli imprenditori che hanno grande successo di solito sono quelli che hanno risolto un grande problema.
La storia e il mondo sono piene di figure come Arunachalam Muruganantham, che inventa una macchina per produrre assorbenti a un costo inferiore a quello dei pad d’importazione. La sua storia la racconta il film “Pad Man” (2018). Anche al filantropo, però, il ricorso al profitto torna utile. Quest’ultimo infatti non è solo un’ossessione dei cattivi caratteri, è soprattutto uno strumento segnaletico: se combinando assieme alcuni fattori produttivi (materiali, macchinari, spazi, persone) si riescono a realizzare prodotti la cui vendita lascia in tasca a chi l’ha organizzata più di quanto ha anticipato, significa che quella combinazione funziona. In caso contrario, c’è qualcosa che non va ed esistono modi migliori di impiegare le stesse risorse.
I critici del motivo del profitto stipulano che esso sia una goccia di nitroglicerina, che basta a far deflagrare l’intero edificio di culture più sane, “comunitarie”, cementate dalla mutua solidarietà di chi vi appartiene. E’ un’opinione quasi denigratoria, nei confronti di queste stesse culture, i cui valori si immaginano debolissimi, arbusti pronti a cadere al primo soffio di vento. In realtà il profitto riguarda molto più i mezzi che i fini. A meno da non considerare “avidità” quel desiderio, universale al netto dei dervisci e di qualche santo, di vivere meglio. Nel qual caso ne siamo pervasi tutti, ma proprio tutti, a cominciare dall’archetipico buon padre di famiglia: che vuole per i suoi figli una vita più comoda di quella che ha avuto lui.
Secondo gli storici dell’economia, nel Diciannovesimo secolo un lavoratore nei paesi occidentali lavorava fra le 50 e le 70 ore settimanali, cioè fra le 2.700 e le 3.500 l’anno. Oggi un lavoratore dei paesi ricchi lavora fra le 25 e le 35 ore alla settimana, cioè fra le 1.300 e le 1.800 ore all’anno. Lo stesso fenomeno sta progressivamente contagiando il resto del mondo. Qualche settimana fa il Financial Times ha pubblicato alcuni dati su un paese nel quale l’occupazione nel settore tessile s’è ridotta di due terzi in dodici anni, nell’industria cartiera e nell’agricoltura è diminuita di un terzo, nella lavorazione della pelle s’è dimezzata. Non erano gli Stati Uniti di Trump ma la Cina di Xi: man mano che una popolazione si arricchisce, gli individui si trovano in condizione di fare lavori meno faticosi.
Se ipotizziamo per un attimo che a metà Ottocento e che negli anni Duemila i consumi delle persone fossero i medesimi, vorrebbe dire che per soddisfare le stesse necessità ci serve la metà del tempo. Ma ovviamente non sono gli stessi. Non solo un operaio o un artigiano, ma neppure un capitano d’industria o un principe potevano sognare di avere una tv a schermo piatto, e neppure una radio portatile. Avrebbero fatto follie per un frigorifero. Lavatrice e lavastoviglie hanno liberato il tempo delle donne di tutti i ceti.
Tali manufatti via via sempre più complessi sono stati resi possibili da una crescente divisione del lavoro. Le produzioni non solo oggi sono infinitamente più specializzate che cent’anni fa. Coinvolgono molte più persone, imprese, paesi. Il 70 per cento dello scambio internazionale è fatto da beni intermedi, da cose che servono a fare altre cose. Il “made in” è marketing: tutti i giorni, l’intelligenza combinatoria degli imprenditori cerca i fornitori migliori, che stiano in Germania o in Azerbaijan. I fornitori cambiano continuamente, nella danza dei prezzi. Questi, come i processi di globalizzazione in generale, sono senz’altro influenzati dalla politica e possono essere stroncati da nuove barriere, daziarie o non daziarie. Ma non è la politica a trainarli: contano soprattutto la logistica e la tecnologia, il fatto che oggi possiamo spostare in condizioni impeccabili beni che un tempo potevano essere solo consumati in loco, l’esistenza di una infrastruttura finanziaria che consente di gestire vendite e acquisti in tutto il pianeta.
E’ un processo relativamente nuovo, nella forma attuale, ma ciò che ha fatto è stato estendere sempre di più lo spazio di quella logica della convenienze che ha scrostato i vecchi sistemi corporativi e aperto nuove opportunità di creare ricchezza, nel mondo occidentale, dalla fine del Settecento in avanti.
Per Deirdre McCloskey, tutto questo è stato reso possibile non dalla secolarizzazione o dall’eclissi del cristianesimo, ma da come a un certo punto la cultura ha cominciato a cambiare e le persone hanno preso a riconoscere piena dignità l’una al lavoro dell’altra. Smettono di essere “importanti” solo il mestiere delle armi e la predicazione dal pulpito, persino vendere detersivi può essere una “vocazione”. C’è un curioso paradosso, di cui sarebbe stato bello Papa Francesco si accorgesse. Gli economisti “liberisti” appartengono al ristretto numero di studiosi che tendono a ricondurre i fenomeni sociali all’importanza delle idee: a ciò che la gente pensa, a come le persone si rapportano gli uni con gli altri. Chi odia il capitalismo tende a considerarlo una macchina che travolgerà qualsiasi argine. Chi ne riconosce i meriti pensa che si tratti di una costruzione fragilissima, appesa al filo delle convinzioni e delle attitudini individuali.
Che significa, concretamente, la dignità che le persone riconoscono le une alle altre e dunque alle professioni che esercitano? Nella Cina maoista, ogni attività imprenditoriale, nella quale cioè qualcuno provasse a mettere assieme fattori produttivi diversi – un venditore ambulante che si piglia un apprendista o un negoziante che assume una cassiera – prefigurava il reato di “sfruttamento”. Punibile con la galera. Nel 1980, viene portato all’attenzione di Deng Xiaopin il caso di un venditore di semi d’anguria tostati, che ha reclutato oltre ai suoi famigliari altri collaboratori. Dovrebbe andare in carcere (c’è già stato in passato). Deng intima ai suoi collaboratori: aspettiamo e vediamo. Quell’aspettiamo e vediamo, ripetuto per centinaia e centinaia di casi simili, cambia nel giro di dieci anni la percezione dell’attività imprenditoriale in Cina, forte di una lunghissima tradizione mercantile, pre-comunista.
Ai tempi della monarchia orleanista, lo storico François Guizot, ministro nel governo francese, era bersagliato di critiche perché il suffragio restava circoscritto ai più abbienti. La sua risposta è tutt’oggi usata contro di lui, pare un equivalente delle brioche di Maria Antonietta, smaschererebbe l’ipocrisia dei borghesi quanto la sfortunata regina aveva rivelato la leggerezza degli aristocratici. Diceva Guizot: “Rischiate, arricchitevi, migliorate la condizione morale e materiale della nostra Francia”. Era giust’appunto l’esortazione di chi non aveva più remore nel riconoscere la piena dignità a chi viveva di commercio o di finanza. A Deng, in anni a noi più prossimi, è stato rinfacciato un atteggiamento simile. I cinesi lo hanno preso sul serio, si sono arricchiti, e sono passati nel giro di una generazione dalle magliette a basso costo all’auto elettrica.
Il Papa, chiunque sia, per mestiere deve rammentarci che esiste una vita dello spirito e provare a frenare, come può, la deriva materialistica dei nostri tempi. Sarebbe bello, però, se cogliesse che l’esortazione all’arricchirsi non è solo gretto materialismo. C’è dentro il sovvertimento di ogni sistema castale, c’è l’idea che sia possibile arrampicarsi sulla scala sociale, che nessuno sia destinato a un solo gradino sul quale non gli resta che accontentarsi. C’è l’esortazione a rendersi utile agli altri, perché non c’è altro modo di arricchirsi se non aiutandoli a risolvere qualche problema. La morale riguarda le intenzioni, è vero. Ma non guasta un po’ di attenzione anche agli effetti.
Abbiamo detto che gli aiuti allo sviluppo pesano troppo poco, per essere i responsabili di come le condizioni di vita delle persone sono migliorate negli ultimi trent’anni. Bisogna aggiungere che il privato fa meglio pure i trasferimenti. Le rimesse, cioè i soldi che chi è andato a cercare fortuna in un altro paese rimanda a casa, valgono poco meno dell’1 per cento del pil mondiale. Questi ultimi sono aiuti, e dei più efficaci: finanziano cure mediche, acquisti di automobili o utensili per lavorare meglio, un nuovo impianto idraulico o la pavimentazione di casa. Ma non sono stanziati né intermediati da burocrazie, nazionali o sovranazionali: vengono da un esercito di madri e padri, figli e figlie che a distanza continua a prendersi cura della sua famiglia. Se tenete presente che la percentuale della popolazione mondiale che vive stabilmente in un paese diverso da quello in cui è nata è il 3 per cento, fa ancora più impressione.
La povertà nel mondo è tutto fuorché debellata e continua, giustamente, a dare scandalo. Faceva bene Papa Francesco a ricordarlo, e lo stesso farà il suo successore. Mentre l’8 per cento degli esseri umani vive con meno di 2,15 dollari al dì, il 50 per cento ha fra 2,15 e 10 dollari per i propri consumi quotidiani, il 26 per cento fra 10 e 30 dollari, e solo i restanti hanno più di 30 (il 14,5 per cento) e più di 100 (l’1,5 per cento) dollari al giorno per le proprie spese. Se dobbiamo sperare che queste percentuali cambino, e nel modo in cui tutti auspichiamo, vanno benissimo tutti gli appelli al buon cuore delle persone. Ma è nel momento in cui conviene loro mettersi l’uno al servizio dell’altro, provare gli uni a risolvere i problemi degli altri, che possiamo sperare in miglioramenti concreti delle possibilità di tutti. Le convenienze fanno pane, sapone, carta igienica, lavastoviglie e profitti. Non moltiplicheranno i pani e i pesci, ma hanno moltiplicato le persone che non muoiono di fame.


La battaglia della Fed
L'assalto di Trump contro Powell è fallito. Ma comunque avrà conseguenze sui mercati
