Le conseguenze (previste) dell'intervento umanitario in Libia
New York. L’estate scorsa Barack Obama ha ammesso un errore di natura tattica nell’intervento militare in Libia del 2011 che ha rovesciato il regime di Gheddafi: “Abbiamo sottostimato la necessità di andare a piene forze. Se decidi di farlo devi fare uno sforzo molto più aggressivo per la ricostruzione della società”. L’errore va cercato nei metodi e nelle proporzioni dell’intervento, ha detto il presidente a Thomas Friedman del New York Times, implicitamente legittimando la visione strategica dell’anima interventista del suo governo, che quella volta ha avuto la meglio sulla prudenza dei realisti. Hillary Clinton, Samantha Power e Susan Rice avevano spinto Washington ad accodarsi a una guerra concepita – con un impuro cocktail di motivazioni umanitarie e di business – fra Parigi e Londra.
Si sa com’è andata a finire: esecuzioni di copti sulla spiaggia da parte dello Stato islamico, due governi in rotta, pozzi di petrolio presi d’assalto, milizie che dichiarano fedeltà al Califfato. Anche il clima all’interno dell’Amministrazione è cambiato. Gli interventisti attorno a Obama tacciono o timidamente sollevano l’ipotesi di una guerra per salvare il paese dalle conseguenze della guerra precedente, mentre la fazione dei prudenti, capitanata dal capo di gabinetto del presidente, Denis McDonough, spadroneggia. Ironicamente, lo scandalo delle email da cui Hillary Clinton si sta districando a fatica è nato in Libia: è stato l’attentato di Bengasi a infondere nei suoi avversari il desiderio ossessivo di mettere il naso nelle comunicazioni dell’ex segretario di stato. Rice in Libia s’è giocata la possibilità di rimpiazzarla.
Chi era contrario dall’inizio all’intervento è il politologo del Dartmouth College Benjamin Valentino, che nel 2011 ha scritto su Foreign Affairs un saggio non soltanto contro l’intervento in Libia, ma contro l’idea degli interventi militari a scopo umanitario, nobili e disastrosi. Allora Valentino passava come un cinico che voleva fare il patto col diavolo, oggi la sua posizione è quella prevalente a Washington. “Un intervento umanitario a basso costo è molto peggio che non intervenire affatto, questa è la prima lezione della guerra in Libia”, dice Valentino al Foglio. “Quello che dice Obama è vero solo in parte: se avessimo occupato il paese con i soldati sarebbe stato diverso, ma il fatto è che non abbiamo la volontà di pagare un prezzo per scenari che non coinvolgono direttamente i nostri interessi. C’è un equivoco sull’idea della responsabilità di fronte alle tragedie umanitarie: abbiamo un senso di responsabilità più ridotto di quello che pensiamo, e pensiamo di avere i mezzi tecnici per risolvere i problemi quando invece non li abbiamo. Quindi interveniamo, ma fino a un certo punto; ci coinvolgiamo, ma non affrontiamo le conseguenze”.
[**Video_box_2**]Per Valentino la differenza fra la Siria e la Libia è presto detta: “In Libia abbiamo speso un sacco di soldi” per una campagna che, con le dovute proporzioni, ha prodotto risultati simili all’inazione siriana. “Purtroppo ora – continua Valentino – la forza qualcuno dovrà usarla in Libia, e questo qualcuno è essenzialmente l’Egitto: il regime change ci è costato molto in termini di influenza nella regione, perché ora qualcun altro deve fare quello che non possiamo più permetterci o non abbiamo più voglia di fare”. Ma la diffusione dello Stato islamico in Libia implica anche un cambio di obiettivo e di prospettiva per gli Stati Uniti nella lotta contro il Califfato, ed è qui che secondo Valentino affiora l’aspetto più bruciante della disastrosa campagna militare in Libia: “Nel giro di quattro anni siamo passati dall’interventismo umanitario contro i dittatori al contenimento dello Stato islamico. Non un grande progresso”.
L'editoriale dell'elefantino