Nella capitale del modello politico islamico
Raid islamista a Tunisi
Roma. Mercoledì mattina c’è stato un raid jihadista nella capitale della Tunisia, quindi contro il solo paese arabo dove la cacciata di un despota (Zine el Abidine Ben Ali) nel 2011 ha poi aperto direttamente la strada a una coabitazione civile fra la politica e l’islam. Alcuni uomini armati che indossavano divise militari hanno sparato ai bus di turisti davanti al Parlamento di Tunisi, che era riunito in seduta per discutere una legge antiterrorismo. Mentre i parlamentari tunisini barricati dentro cantavano l’inno nazionale come sfida patriottica alla minaccia, gli uomini armati sono passati all’edificio accanto, lo storico museo del Bardo, visitato in quel momento da circa duecento stranieri, inclusi italiani, francesi e polacchi, hanno ucciso altre persone e hanno provato a prendere in ostaggio i presenti. A questo punto una parte del gruppo di fuoco è fuggita, prima dell’intervento delle forze speciali tunisine. Sul posto è arrivata anche la Guardia presidenziale, che è un corpo misto di polizia e militari ed è considerato “più impermeabile” alle infiltrazioni jihadiste – tanto da essere usato come corpo scelto in operazioni delicate contro estremisti islamici come quella di mercoledì. Secondo il resoconto del ministro degli Interni Habib Essid, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nel museo, hanno ucciso due terroristi e arrestato un terzo uomo.
Il bilancio è di ventidue morti, inclusi due tunisini che lavoravano nel museo, un poliziotto e un uomo delle squadre speciali, e potrebbe salire perché ci sono feriti gravi. Quattro vittime sono italiane, e sei italiani sono feriti. Il gruppo di connazionali in visita al museo era numeroso e Tunisi è anche la tappa di un viaggio organizzato dalla italiana Costa crociere nel Mediterraneo, forse era una delle poche mete a essere considerate ancora sicura sull’altra sponda del mare.
Il giorno prima dell’attacco il ministro del Turismo tunisino, Selma Elluni, aveva detto all’Ansa che il paese è perfettamente sicuro per i turisti e aveva negato qualsiasi rischio legato al terrorismo. “Naturalmente la situazione in Libia non aiuta. Tuttavia, le nostre frontiere sono assolutamente impermeabili a qualsiasi tentativo di infiltrazione. Non ci sono problemi di sicurezza in Tunisia. Tutto è sotto controllo”.
Il ministro tentava di valorizzare un settore che vale circa il 12 per cento del prodotto interno lordo della Tunisia e che dopo la rivoluzione contro Ben Ali aveva visto un crollo drastico dei profitti. Di recente però era cominciato il recupero e forse anche di più, con un aumento degli arrivi di turisti del 24 per cento più alto in questi mesi del 2015 rispetto al 2010.
Non c’era un attacco così grave dal 2002, quando Al Qaida fece esplodere una bomba alla sinagoga di Djerba, e questa volta c’è tutto un sovrappiù simbolico da mettere nel conto perché la Tunisia è l’unico paese a essere uscito in piedi dalla cosiddetta Primavera araba, quell’ondata di rivolte popolari che ha scosso alcuni paesi arabi a partire dalla fine del 2010.
Oggi Siria e Libia sono due modelli così negativi che sembrano concepiti dalla mente di un tiranno mediorientale come esempio della catastrofe che accade quando si prova a rimuovere il coperchio autoritario da una nazione araba. Entrambi i paesi in questo momento sono alle prese con l’espansione dello Stato islamico, una forma incredibilmente virulenta del piccolo gruppo terrorista che dieci anni fa si faceva chiamare Al Qaida in Iraq. Lo Yemen è sull’orlo di una guerra civile fra nord e sud, e la minaccia qaidista è più forte che mai. L’Egitto sta ritrovando stabilità, ma è passato per una sequenza di scossoni violenti che ancora tiene il paese in uno stato post traumatico.
La Tunisia invece ce l’aveva fatta, ma è come se questo successo politico fosse minacciato da un’ostilità fortissima e sotterranea, che per ora trova sfogo all’estero. Almeno tremila islamisti tunisini sono andati a combattere in Siria negli ultimi tre anni, e il numero indica un problema urgente, considerato che la Tunisia è uno dei paesi più piccoli del mondo arabo. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite citato lunedì l’agenzia McClatchy di Washington, il numero dei tunisini andati a combattere in Libia sarebbe ancora più alto, quattromila, ma per ora non appare credibile – perché una brigata di quattromila combattenti tunisini si sarebbe fatta notare di più. Per fare un paragone: il contingente dello Stato islamico che in queste settimane sta occupando una parte di Sirte, sulla costa della Libia, e sta assaltando pozzi petroliferi nel deserto a sud della città è di circa cinquecento uomini, secondo fonti locali. E se in Tunisia ci fossero gruppi “di ritorno”?
[**Video_box_2**]La questione della rivendicazione dell’assalto al museo è spinosa. Potrebbe essere la rappresaglia di qualche fazione jihadista locale per le “ratissage”, vale a dire le operazioni di rastrellamento che l’esercito compie regolarmente nelle aree fuori dalle città per tenere sotto controllo gli estremisti. Si è parlato di una rivendicazione dello Stato islamico, che minaccia la Tunisia nei video, ma non è arrivata una dichiarazione formale e non è possibile prendere come una conferma l’entusiamo su internet dei sostenitori di Abu Bakr al Baghdadi, che mercoledì celebravano la “ghawza Tunis”, in arabo l’incursione su Tunisi. Quando a fine gennaio lo Stato islamico ha assaltato l’Hotel Corinthia di Tripoli la rivendicazione era uscita in contemporanea.
Anche senza un legame dimostrato, il problema del jihad della porta accanto, in Libia, è enorme. A sfogliare gli elogi funebri dei combattenti morti che lo Stato islamico mette su internet ci si imbatte in decine di tunisini, sono la maggioranza dei volontari stranieri. Sabato scorso è stato ucciso a Sirte un comandante del gruppo, Ahmed al Rouissi, conosciuto come “Abu Zakaria al Tunisi”. Rouissi era ricercato in Tunisia perche era considerato il mandante dell’omicidio di due politici tunisini nel febbraio e nel luglio 2013, Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi. All’epoca Rouissi era un leader del gruppo Ansar al Sharia, e secondo Associated Press proprio con uno dei capi del gruppo, Saifullah Ben Hassine, è andato a combattere in Libia. Se la leadership dello Stato islamico in Libia ha cooptato i leader tunisini, c’è una ragione in più per temere che l’esperimento democratico e islamico tunisino sia sotto attacco dei jihadisti che lo considerano come una blasfemia “da riparare”.
L'editoriale dell'elefantino